08 novembre 2018 15:11

Gentile bibliopatologo,
devo confessare che spesso accade che infliggo violenza sui libri, non violenza in generale ma una precisa: non riesco a sopportare le alette delle copertine. Le taglio via con forbici, coltelli, cutter, se sono dei libri troppo importanti utilizzo lo scotch, talvolta anche quello da imballaggio, a volte arrivo a strapparle via. Non riesco proprio a sopportarne l’esistenza. È possibile uscirne?
–Menomatrice di libri

Cara Menomatrice,
forse avresti dovuto firmarti l’Arrotina. Ricordi quel messaggio registrato che causa tanti risvegli precoci la domenica mattina, e dunque fa salire al cielo tante imprecazioni? “Donne, è arrivato l’arrotino! Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto…”. A rigore, il precursore dell’arrotino è stato Sigmund Freud, in un passo dell’Introduzione alla psicoanalisi che suonerebbe molto bene recitato da quella voce monocorde diffusa dai megafoni: “Armi appuntite di ogni tipo, coltelli, pugnali, lance, sciabole…”. Per lui sono tutti – indovina? – simboli fallici, in quanto “rappresentano la caratteristica di penetrare nel corpo e di ferire”.

La tua furia omicida prende di mira le alette – o bandelle, o risvolti – dei libri, e a quanto pare questo impulso oscuro deve turbarti molto (il lettore non lo sa, ma mi hai inviato più volte la tua lettera nel corso dei mesi); così ho deciso alla fine di risponderti, anche se non sono certo di poterti offrire di meglio che qualche congettura spavaldamente arrischiata. Ora, i moventi del delitto – consci e inconsci – possono essere moltissimi, e sappiamo bene che nei secoli i libri sono stati oggetto di violenze, persecuzioni, roghi e distruzioni rituali di ogni tipo. In quei casi, si è trattato quasi sempre di sbarazzarsi di opere ritenute pericolose o diaboliche – dunque di liberarsi dai libri. Tu invece, mi sembra, vuoi privare i libri della loro libertà, come quei bambini un po’ crudeli che giocano a strappare le ali alle mosche o alle farfalle. Le alette, infatti, hanno una caratteristica che salta all’occhio: sono l’unica parte del volume a godere di uno spazio, sia pur ridotto, di movimento. Non sono, a differenza delle pagine, legati al dorso come prigionieri al palo. Hanno un che di superfluo, quasi di vezzoso, sono un’appendice pendula e fluttuante della sovraccoperta. Questo non puoi tollerarlo, e perciò pratichi un’appendicectomia cruenta.

Enrique Ramos Lopez, EyeEm/Getty Images

Ti immagino, congetturando alla cieca, come il tipo di persona che rimbocca le lenzuola alla maniera di certi alberghi, dove poi è quasi impossibile infilarsi; che stringe la cintura all’ultimo buco disponibile e abbottona le camicie fino a un millimetro dal soffocamento. Allo stesso modo, forse, vorresti che i libri fossero parallelepipedi compatti e geometricamente impeccabili, senza un margine pur esile di gioco. E io non avrei nulla da ridire se non fosse che, il più delle volte, questa ossessione del controllo, questo sadismo della disciplina, si riverbera anche nelle abitudini di lettura. Ti innervosisci se l’autore si perde in lunghe lussureggianti digressioni, come Oscar Wilde quando enumera le manie decadenti di Dorian Gray? Mal sopporti i finali aperti o ambigui? Pensaci: potrebbero essere spie di un’esperienza di lettura piuttosto repressa, e il tuo gesto di menomatrice con il tagliacarte in mano, se vogliamo tornare a Freud, potrebbe leggersi come una castrazione simbolica che tradisce una profonda autocastrazione.

Il tagliacarte non rientra nell’elenco di Sigmund l’arrotino, ma nella storia del romanzo poliziesco è usato spesso come arma del delitto, fin dall’epoca classica – anzi, soprattutto in quella: da Il tagliacarte veneziano di Carolyn Wells, del 1909, a La casa delle metamorfosi di Ellery Queen, che è del 1936. Prova a leggerli, e a fare i conti con la natura delittuosa dei tuoi impulsi. Posso garantirti che non hanno alette acquattate dietro la copertina, e che non troverai finali aperti, penzolanti come bandelle indisciplinate. Posso anche prevedere che, riposto il volume nella tua biblioteca di parallelepipedi perfetti, proverai un brivido davanti a quel sanatorio di mutilati, e ti farai la stessa domanda che dà il titolo a un vecchio giallo di Agatha Christie: Sono un’assassina?

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