“Questo è l’odore della guerra”, dice Pavlo, l’autista che mi porta nel quartiere di Obolon, nella periferia settentrionale di Kiev dove alle cinque del mattino del 14 marzo un razzo ha colpito un palazzo di nove piani. Dopo tanti annunci, la guerra è arrivata nel cuore della capitale ucraina con i suoi segnali inconfondibili: le esplosioni, le sirene, i palazzi che tremano, i vetri che si rompono, i morti. Cinque ore dopo la prima esplosione, un altro razzo ha colpito un tram a sette chilometri dal centro della città. Nell’aria c’è un odore acre di esplosivo, misto a una polvere grigia e sottile che sembra carbone.
Quando arriviamo davanti al palazzo colpito, i vigili del fuoco hanno già spento l’incendio e portato in salvo gli inquilini. Diverse persone vanno a recuperare delle cose all’interno prima di andarsene. “Era il palazzo più bello della zona, con le aiuole, i fiori”, dice Anja Metelyzja. Ora è uno scheletro di cemento sventrato e distrutto dalle fiamme.
A terra è rimasta una persona, l’hanno ricoperta con un telo di plastica. Metelyzja urla in una videochiamata con la madre: “Li odio”. Poi gira il telefono per mostrare il palazzo distrutto. Piange, ma senza lacrime. Racconta che ha vissuto qui tutta la vita. Viveva da sola con suo figlio Timur di otto anni e il gatto Vasilio. Alle cinque di mattina il bambino ha urlato e la casa ha tremato, scossa dal missile che ha colpito l’edificio. “Le finestre si sono aperte, poi i vetri sono andati in frantumi”.
In lontananza si sentono i colpi di mortaio, i russi stanno combattendo contro gli ucraini a Irpin e a Buča, a pochi chilometri da Kiev. Secondo Metelyzja, il missile dev’essere partito dall’aeroporto di Hostomel, che ormai è nelle mani dell’esercito russo. Anche se l’avanzata di terra va a rilento, si combatte nei quartieri occidentali e in quelli orientali della capitale. Lo stallo è stato superato il 14 marzo, quando è ricominciata l’offensiva, soprattutto aerea. Il 15 marzo un razzo ha colpito un edificio di dieci piani, la stazione della metropolitana di Lukjanyvska e una fabbrica di armi.
Di casa in casa
A Obolon una signora di 84 anni, Jaroslava, è seduta davanti al palazzo distrutto, avvolta in una coperta termica. Abitava al secondo piano. La sua casa non c’è più. Racconta che si era svegliata presto, forse per una premonizione, ed era seduta in cucina quando ha sentito l’esplosione. Ora sta aspettando che arrivi sua figlia a portarla via. Ha origini russe, parla russo, ha una figlia che vive in Russia. Ma quello che stanno facendo i russi al suo paese, l’Ucraina, non lo capisce. Non piange, è solo stanca.
Petro Khrošmo è un saldatore in pensione, ha gli occhi azzurri e non ha denti. “Me li hanno tolti i russi quando facevo il servizio militare, perché sono sempre stato un nazionalista ucraino. Ora che mi hanno distrutto la casa, andrò a combattere”, dice con rabbia. Non ha nulla da perdere, spiega. Nel Donbass nel 2014 ha imparato cos’è la guerra e ora che gli è arrivata in casa non ha dubbi. Si toglie il cappello di lana e s’infila un berretto con la visiera color verde militare. In quasi tre settimane dall’inizio del conflitto più della metà dei 3,4 milioni di abitanti di Kiev sono scappati. Quelli rimasti si sono trasferiti nei rifugi antiaerei. Il sindaco, Vitalij Klyčko, il 15 marzo ha annunciato un coprifuoco di 36 ore, che è cominciato alle 20 dello stesso giorno ed è finito alle 7 del 17 marzo. “Vi chiedo di stare chiusi in casa per due giorni”, ha detto Klyčko agli abitanti . “È un momento difficile e pericoloso”. Durante il coprifuoco i servizi di sicurezza ucraini hanno battuto la città casa per casa in cerca di infiltrati e sabotatori russi, controllando passaporti e documenti a tutti gli stranieri. Intanto i primi ministri di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia sono arrivati a Kiev il 15 marzo per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj e manifestargli la loro solidarietà. Durante la loro presenza gli allarmi aerei si sono diradati. Ma molti temono che la Russia sia pronta a sferrare un attacco su larga scala contro la capitale anche da terra. Prima dell’inizio del coprifuoco, gli abitanti di Kiev hanno fatto scorte alimentari, anche se gli scaffali dei supermercati della città erano già semivuoti. Se Kiev dovesse essere messa sotto assedio potrebbe resistere per due settimane, aveva detto il sindaco.
Le cantine, i garage, le stazioni della metropolitana sono diventati una città parallela: in superficie la capitale ucraina è deserta, i negozi chiusi, tutte le attività sospese, mentre la vita si è trasferita sottoterra. Katarina Dykorjuk è un’insegnante di economia dell’università di Kiev e con la figlia Tanja di cinque anni e la bassotta Agata dorme da giorni nella stazione della metropolitana del palazzo nazionale delle arti. Tra due piloni ha montato una tenda, gonfiato un materasso da campeggio, sistemato le scorte di viveri e acqua. C’è perfino un vaso di fiori sulla tavola, per rendere tutto simile a una casa vera. Mentre Tanja gioca con il cane, vestita con una tuta da sci, Katarina spiega che i sotterranei della metro sono l’unico posto caldo e sicuro della città e che solo in questo modo è possibile continuare a vivere senza impazzire. Ma come ci si prepara a un assedio? “Se vogliono prendere Kiev, prima ci dovranno uccidere tutti”, dice la donna con un’espressione dura.
Fantasmi del passato
Nella stazione della metro, accanto a Katarina Dykorjuk e a sua figlia vivono tre ragazzi: stanno dormendo dentro ai vagoni. “Sono più caldi”, dice Irina, che fa la costumista e la sarta per il cinema. “Ci siamo portati tutto il necessario, andiamo a casa solo per fare la doccia e cambiarci”, continua la ragazza, che mostra un corpetto di pizzo cucito per passare il tempo nelle lunghe notti di allarmi antiaerei. I due ragazzi dicono di essere pronti ad andare a combattere, come tutti quelli che sono rimasti a Kiev.
Le cantine e le stazioni della metropolitana sono diventate una città parallela
Evgen non si dà pace. Da giorni non ha più notizie della moglie Ekaterina e dei tre figli: Varvara, di otto anni, Tatjana, di quattro, e Ivan, di uno e mezzo. Vivono a Hostomel, una delle città bombardate e poi occupate dai russi a nord di Kiev. L’ultima volta che li ha sentiti, gli hanno detto che si sarebbero rifugiati in cantina, ma non hanno né connessione a internet né elettricità, e non riescono a comunicare. Evgen è molto preoccupato. Il 24 febbraio, quando è scoppiata la guerra, era a Kiev per lavorare e non è più riuscito a tornare a casa. Ha gli occhi segnati dalla stanchezza. Ora dorme nei sotterranei della metropolitana, in un sacco a pelo. Usa come tavolino per mangiare una cassetta di legno per la frutta. E passa le giornate a chiedersi cosa stiano facendo i suoi familiari, se e quando li rivedrà. “Se gli succedesse qualcosa non me lo perdonerei, avrei dovuto essere lì a difenderli”.
I racconti che arrivano da Irpin, Buča e Hostomel, le tre città a nordovest della capitale dove passa la linea del fronte, sono terribili. In venti giorni di guerra queste tranquille cittadine si sono trasformate in un campo di battaglia: le truppe russe ne hanno preso il controllo e gli abitanti si sono rifugiati negli scantinati, dove presto hanno cominciato a scarseggiare acqua e cibo, e dove le temperature scendono spesso sottozero.
Tra i profughi di Hostomel e Buča, i più anziani e i disabili sono stati trasferiti in un asilo nido di Kiev. Olga Marčenko, 73 anni, non smette di piangere mentre racconta della sua fuga da Hostomel: “La città è stata distrutta dai bombardamenti, le case date alle fiamme”. Ha vissuto in una cantina per quattordici giorni, non poteva muoversi perché non cammina bene e inoltre ha un figlio di cinquant’anni disabile. “I volontari ci hanno spostati di cantina in cantina, fino a quando siamo arrivati a Irpin e ci hanno fatto attraversare il ponte portandoci in braccio”.
Nina Bondareva, 73 anni, è stesa su un materassino a terra, coperta da un plaid. Non riesce a muoversi, è sola. “Vorrei solo tornare a casa”, dice. Ma quale casa? A Buča sessanta corpi sono stati seppelliti in una fossa comune vicino a una chiesa. Il video della sepoltura è stato pubblicato su Facebook da un medico che lavora nell’ospedale di Irpin, Andrij Levkjvsky. I medici hanno seppellito le vittime, trasferite dall’ospedale. Non tutti i morti sono stati identificati e “nessuno sa esattamente dove siano i parenti”.
Le immagini delle fosse comuni agitano i fantasmi del passato e ricordano a molti ucraini quando gli ebrei e i partigiani sovietici erano assassinati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.
Dmytro Tkačuk è riuscito a scappare da Buča l’8 marzo. “Quando sono arrivato a Kiev mi sono messo a piangere”, racconta. I bombardamenti hanno distrutto la sua città, i carri armati russi sono entrati sparando sulle case e danneggiando la cupola di una chiesa. “È stato come se tutte le campane del mondo suonassero all’unisono”, dice Tkačuk. La sua famiglia ha deciso di scappare insieme ai vicini di casa, passando per le stradine secondarie ed evitando i posti di blocco dei russi. Si sono rifugiati nella chiesa di Irpin, prima di attraversare il fiume. Appena sono usciti allo scoperto per raggiungere il ponte che collega Irpin a Kiev, hanno sentito degli spari e delle esplosioni. La nonna è caduta, Tkačuk l’ha presa in braccio e l’ha portata fino al fiume, con la paura che i cecchini gli sparassero. “Cos’è l’inferno, se non questo?”, si chiede. Ora è a Kiev, ma presto non sarà al sicuro nemmeno qui. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1452 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati