Zittire qualcun altro è complicatissimo. Anche se in tasca hai il più coriaceo degli argomenti, pretendere il silenzio è un atto un po’ marziale, spiacevole, violento. Con le mie figlie ci casco sempre più di frequente. Ascolto le loro folli richieste, prendo tempo, aspetto che il dibattito monti, per pigrizia o per sfumatissima liberalità, e poi calo l’accetta del potere. Una dinamica che si ripete sempre uguale: per uscire dall’angolo mi affido a un’immagine quasi biblica, intoccabile e immanente, della paternità. Gonfio il petto, esibisco le tavole di pietra e invoco l’oscurità: “Finché state in questa casa comando io”, con pernacchia finale che non c’è ma è come se ci fosse e infatti mi devo voltare per non ridere come loro. Il cliché che finora sono riuscito a contenere è quello del paragone, raccontare che a mio padre “bastava uno sguardo” per confinarmi nelle stanze del pentimento. Se lo dicessi quelle parole mi getterebbero nel ridicolo. Il settimo piano di viale Mazzini, quello dei capi, anche esso un’autorità adulta che oscilla tra l’attendismo e il crederci tantissimo (con ipotesi di pernacchia), rischia invece di precipitare in questo tranello, non tanto per fragilità quanto per un’illusione ottica: quella di poter zittire le voci altrui come se vivesse ancora negli anni in cui la Rai aveva il monopolio, e un monologo lo si spegneva sul nascere senza la conseguenza di garantirgli per reazione una vita pubblica e splendente. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati