Da mesi un enorme macchinario sta scavando in profondità nel centro di Roma, sotto piazza Venezia, ai piedi dell’imponente monumento a Vittorio Emanuele II, che con i suoi scalini e le colonne di marmo bianco è probabilmente la migliore testimonianza disponibile della grandiosità dell’antica Roma che potremmo mai vivere. Conosciuto anche come Altare della patria, con la sua fiamma sempre accesa, eterna, per commemorare il milite ignoto, sorvegliata da una solenne guardia d’onore, il monumento è stato soprannominato dai romani, che tendono a smitizzare tutto, “la macchina da scrivere”. Su un altro lato della piazza c’è palazzo Venezia, dove Mussolini aveva il suo quartier generale e dal balcone parlava alle folle adoranti.

Piazza Venezia è uno dei punti più trafficati di Roma: un vortice di auto, taxi, autobus e motorini, senza semafori o corsie distinguibili. La scavatrice sta lavorando alla costruzione della terza linea della metropolitana, che durerà anni e sta causando infiniti, esasperanti rallentamenti al traffico. Le trivelle incontrano continuamente i resti dell’antica città, e la nuova stazione della metropolitana, sotto la piazza, includerà un museo in cui sarà esposta una parte degli oggetti trovati durante gli scavi, che saranno sicuramente all’altezza delle migliori collezioni archeologiche del mondo.

Come può Roma – o l’Italia– andare avanti e adattarsi alle esigenze del mondo contemporaneo quando a ogni angolo l’enormità del passato emerge con tutta la sua forza? Come si può costruire qualcosa di nuovo qui, senza essere gravati dal peso letterale e metaforico della storia, dell’impero, della tradizione? Non c’è da stupirsi se i futuristi volevano una rottura netta con tutto ciò che era avvenuto prima per creare qualcosa di diverso. Più ci s’interessa all’Italia, più si capisce perché tante innovazioni politiche sono state di destra: il futurismo, il fascismo, la politica postideologica e personalistica di Silvio Berlusconi, il tecnopopulismo e la rabbia online che nell’ultimo decennio hanno portato al potere i partiti antisistema e poi quelli di estrema destra. L’Italia può condividere condizioni meteorologiche e politiche con il resto dell’occidente, ma ciò che la distingue è l’assoluta impossibilità di sfuggire alla sua storia.

Il fascismo è tornato?

Sono venuta a Roma per cercare di capire le priorità culturali del governo guidato da Giorgia Meloni. Quando è diventata presidente del consiglio, nell’autunno del 2022 – la prima donna a capo del governo italiano e la prima leader di estrema destra a guidare un paese dell’Unione europea – c’era una diffusa preoccupazione a livello internazionale. Fratelli d’Italia (Fdi), il partito di Meloni, che lei aveva contribuito a fondare nel 2012, è nipote del Movimento sociale italiano, il partito neofascista formato nel 1946 dagli ex sostenitori di Mussolini. Il fascismo era tornato? L’Italia si stava allontanando da Francia e Germania e si stava avvicinando a Polonia e Ungheria? La retorica del “noi contro loro” di Meloni era solo aria fritta o aveva un impatto reale? Quello che stava succedendo in Italia era un presagio del futuro o un ritorno al passato? Quanto avremmo dovuto preoccuparci?

Le risposte, soprattutto in una città stanca del mondo come Roma, tendevano a variare da boh a insomma, che può essere liberamente tradotto come “stai scherzando? Qui non cambia nulla”. Giuliano Ferrara, fondatore del colto e tagliente quotidiano conservatore il Foglio e uno dei più acuti commentatori politici italiani, mi ha detto: “L’unica cosa che possiamo temere è di diventare un paese serio”. Ma se guardiamo attraverso la nebbia del cinismo italiano e i messaggi contrastanti del governo, comincia a emergere un quadro più chiaro. Fdi è un partito di opposizione rissoso che si trova al potere per la prima volta, smanioso di mettere i fedelissimi in posizioni importanti, ma senza una scorta sufficiente di dirigenti esperti e intellettuali presentabili. È l’immagine di una destra postfascista che cerca di cambiare la memoria storica italiana – enfatizzando o minimizzando – e che tenta, spesso in modo goffo e senza nuove idee, di forgiare una destra moderna in un paese in cui manca una tradizione conservatrice (fascismo a parte). Soprattutto è il ritratto di un paese che invecchia, preoccupato per il suo futuro e aggrappato a un’idea del suo passato.

Cantiere per ristrutturare piazza San Giovanni. Roma, 27 aprile 2024 (Matteo Bastianelli)

Quest’idea non riflette però la realtà di un sistema economicamente precario e sempre più multietnico. È un elettorato spinto dalla paura e dalla rassegnazione, non dalla speranza, quello che ha votato Meloni. Fratelli d’Italia si aggrappa alle ansie della classe media. Ha fatto una campagna elettorale basata sulla difesa dei confini, sullo stop all’immigrazione, sull’eliminazione del reddito di cittadinanza e sul richiamo ai valori della famiglia tradizionale. Con il sostegno degli insegnanti, dei dipendenti pubblici, degli operai e dei commercianti italiani. Gruppi di cittadini delusi che un tempo votavano a sinistra e ora si sono spostati a destra. Alle politiche del 2022 Fdi ha ottenuto il 26 per cento dei voti, non proprio la maggioranza, in un’elezione con l’affluenza più bassa della storia italiana.

L’estrema destra è stata normalizzata più che resa innocua, una tendenza ben avviata in tutto l’occidente. Ma in Italia non è tornato il fascismo. Nonostante le radici postfasciste, il governo Meloni rientra nella corrente principale della destra europea. Sostiene l’euro, l’Unione europea, la Nato. Con una solida maggioranza in parlamento, Meloni ha annunciato di voler cambiare la costituzione per fare in modo che i presidenti del consiglio siano eletti direttamente dal popolo. Questo indebolirebbe il presidente della repubblica, che dovrebbe essere al di sopra delle parti. Non è chiaro se la leader di Fdi vincerà questa battaglia o se un cambiamento simile porterebbe alla stabilità politica o a un potere assoluto. Per ora la presidente del consiglio italiana ha molto più margine di manovra in campo culturale.

Egemonia

Le dinamiche culturali dell’Italia di Meloni non sono molto cambiate rispetto a quelle dei governi precedenti. Lo stato fatica ancora a confrontarsi con un patrimonio enorme e non sempre ha le risorse per gestirlo. Secondo l’ufficio del turismo delle Nazioni Unite, in Italia arrivano turisti da tutto il mondo, nel 2023 sono stati più di 57 milioni. Meloni ha affidato quasi tutti gli incarichi culturali più importanti a persone di fiducia, tutti uomini e convintamente di destra. Come direttore generale della Rai ha scelto Giampaolo Rossi, militante di lunga data dei partiti di estrema destra, che sul suo blog personale esprime ammirazione per Putin e disprezzo per ­George Soros. Da quando ha assunto il suo incarico, il numero di spettatori della tv di stato è diminuito. Inoltre la Rai ha dovuto rispondere alle accuse di censura per aver cancellato il monologo di un noto scrittore, critico nei confronti della presidente del consiglio.

Ministro della cultura è stato nominato Gennaro Sangiuliano, un giornalista che ha scritto anche libri su Putin, Xi Jinping e Hillary Clinton. Quando era direttore del Tg2, dal 2018 al 2022, mostrava un flusso continuo d’immagini di persone dalla pelle nera che arrivavano su imbarcazioni malridotte, creando la percezione di una crisi migratoria che ha contribuito a mantenere i populisti al potere. Una volta entrato in carica, ha ripetutamente detto di voler ribaltare “l’egemonia culturale della sinistra”.

Lavori in largo del Colonnato per il giubileo del 2025. Roma, 27 aprile 2024 (Matteo Bastianelli)

Negli anni settanta il Partito comunista italiano, che all’epoca era il più grande partito comunista in occidente, ottenne dalla Democrazia cristiana, al governo, di poter gestire un canale della Rai, dato che i dirigenti della maggior parte delle istituzioni culturali, ma anche intellettuali, scrittori, artisti e registi, allora come oggi, erano di sinistra. Quando ho chiesto a Sangiuliano cosa significasse ribaltare quella “egemonia culturale”, mi ha risposto: “L’animo radical chic di certi salotti romani ha tentato di trasformare la cultura in Italia in un affare per pochi”. Per reazione, pensa che “oggi si deve dare al panorama culturale nazionale un orizzonte più vasto. Anche a livello internazionale, dove imperano la cancel culture anglosassone e la dittatura woke”. In pratica, il governo sta sostituendo le persone nominate dai precedenti governi di centrosinistra.

Lo scorso autunno Sangiuliano ha voluto una mostra alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma dedicata a JRR Tolkien, Tolkien: uomo, professore, autore. All’inaugurazione ha partecipato anche Meloni. La destra post­fascista di Fdi ha spesso cercato eroi nella letteratura fantasy. Da anni organizza un festival annuale di estrema destra chiamato Atreju, dal nome dell’eroe guerriero della Storia infinita, che combatte una forza oscura. La mostra si è poi trasferita al palazzo reale di Napoli, la città dov’è nato Sangiuliano. A Roma ha coinciso con la mostra per il centenario della nascita di Italo Calvino, un simbolo di quella élite culturale di sinistra che il governo Meloni è così ansioso di sostituire. L’eroe intellettuale di Sangiuliano è invece Giuseppe Prezzolini, morto all’età di cento anni nel 1982, ex direttore dell’Accademia italiana della Columbia university. Sangiuliano ha appena pubblicato una sua biografia e ha detto di ammirarlo come conservatore e antifascista. Cita spesso una sua frase: “Il progressista è la persona di domani. Il conservatore è la persona di dopodomani”. Gli autori satirici italiani non si sono lasciati sfuggire le gaffe di Sangiuliano, che recentemente ha detto: “Quando uno pensa a Londra pensa a Times square”.

Nel 2014 un ministro della cultura di centrosinistra, Dario Franceschini, aveva stabilito che a dirigere i principali musei italiani potevano essere nominati anche degli stranieri e aveva dato a questi musei anche maggiore autonomia di bilancio. Sangiuliano mi ha detto che una delle sue priorità è estendere a più musei quest’autonomia. L’obiettivo è arrivare a un totale di sessanta. Significa che avranno più pressioni per essere finanziariamente autosufficienti. E mentre gli incarichi restano aperti agli stranieri, tutti i direttori nominati da Sangiuliano sono italiani.

La direzione dei musei

Dopo due mandati alla guida degli Uffizi di Firenze, Eike Schmidt, di origine tedesca e da poco cittadino italiano, è stato nominato direttore del museo di Capodimonte a Napoli, dove è succeduto al francese Sylvain Bellenger. Quando sono andata a trovarlo a Capodimonte, in cima a una collina che domina lo spettacolare golfo di Napoli, Schmidt mi ha raccontato i suoi progetti per il museo, ma sembrava più interessato alla prospettiva di candidarsi a sindaco di Firenze, cosa che poi ha fatto. A Firenze, una città invasa dai turisti, Schmidt era stato acclamato per aver eliminato i bagarini (anche questo rispecchia l’insistenza di Meloni sulla legge e l’ordine). Si è candidato come indipendente con il sostegno di Fratelli d’Italia e di altri partiti di centro e di destra. Il 23 e 24 giugno andrà al ballottaggio con Sara Funaro, candidata per il centrosinistra.

Sul monumento a Vittorio Emanuele II. Roma, 2 maggio 2024 (Matteo Bastianelli)

Progetto neocoloniale

Anche i direttori dei teatri dell’opera sono stati coinvolti in questo gioco delle sedie e nell’enfasi sul sentimento nazionale. Il francese Stéphane Lissner si è rivolto a un tribunale per mantenere il suo incarico di direttore del San Carlo di Napoli dopo che il governo aveva stabilito per legge che non si può dirigere un teatro dell’opera dopo i settant’anni. In aprile Sangiuliano ha nominato alla Scala di Milano Fortunato Ortombina, l’ex direttore della Fenice di Venezia, dicendo che “dopo tre stranieri” – Lissner, Alexander Pereira e Domi­nique Meyer – “un italiano ora tornava a ricoprire quella carica”.

Un importante banco di prova di come Meloni sta imprimendo il suo marchio alla cultura è la Biennale di Venezia, uno dei palcoscenici internazionali più importanti del paese. Per l’incarico di presidente ha scelto il suo amico Pietrangelo Buttafuoco, un colto romanziere, giornalista e intellettuale che ha fatto parte del Movimento sociale italiano e si è convertito all’islam. Buttafuoco, che ha un curriculum da eterodosso di centrodestra, non ha rilasciato interviste sulla sua concezione dell’evento. Nominerà il prossimo curatore della Biennale d’arte e il nuovo direttore artistico del Festival del cinema di Venezia, che succederà ad Alberto Barbera, nominato dalla sinistra e molto rispettato per aver reso la rassegna più competitiva con quella di Cannes.

La Biennale d’arte di quest’anno, inaugurata ad aprile, è stata curata da Adriano Pedrosa, un brasiliano nominato dall’ex presidente della Biennale Roberto Cicutto, che nel 2020 era stato scelto dal ministro Franceschini. Il tema è “Stranieri ovunque”, una risposta diretta al nazionalismo, con un particolare focus su artisti queer, folk, indigeni e outsider. Pedrosa ha detto che il titolo ha diverse valenze: “L’espressione stranieri ovunque”, spiega il curatore sul sito della Biennale, “ha più di un significato. Innanzitutto, vuole intendere che ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, che a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”.

Nel suo intervento all’inaugurazione della Biennale, Buttafuoco si è mostrato piuttosto rispettoso della visione di Pedrosa. Per Venezia, ha affermato, “la diversità è fin dall’inizio una condizione fondamentale della normalità. Un processo in cui ci si confronta e rispecchia con l’altro, mai percepito in termini di negazione o rifiuto”. È difficile sapere come gestirà le complesse esigenze istituzionali e diplomatiche del suo nuovo incarico. Quest’anno Sangiuliano ha difeso il diritto d’Israele ad avere un padiglione alla Biennale nonostante l’opposizione di alcuni. Alla fine l’artista israeliana, Ruth Patir, ha dichiarato che non avrebbe aperto il padiglione fino a quando non ci fosse stato un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi.

Alessandro Giuli, giornalista e scrittore, è stato nominato direttore del Maxxi, il museo di arte e architettura contemporanea di Roma progettato da Zaha Hadid. Giuli ha assunto due figure di tutto rispetto: a capo del programma artistico ha scelto Francesco Stocchi, già curatore del museo Boijmans van Beuningen di Rotterdam, e per quello di architettura e de­sign Lorenza Baroncelli, ex direttrice artistica della Triennale di Milano. Al museo è in corso la mostra Ambienti 1956–2010: environments by women artists II, organizzata dalla Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Tra le prossime esibizioni ci sono quella curata dallo studio di architettura statunitense Diller Scofidio + Renfro e una retrospettiva dell’artista dell’arte povera Giovanni Anselmo, pensata insieme al Guggenheim di Bilbao.

Giuli, che è vicino a Meloni, ha riflettuto molto su come la destra postfascista può e dovrebbe evolversi. Nel suo libro Il passo delle oche (Einaudi 2007) criticava Alleanza nazionale (An), il partito nato nel 1994 dopo lo scioglimento del Movimento sociale, per non aver rotto completamente con il suo passato. Meloni ha scalato i ranghi di An e ha rappresentato il partito da ministra della gioventù nel quarto governo Berlusconi. Il libro di Giuli è stato pubblicato da Einaudi, una storica casa editrice di sinistra.

Ho incontrato il direttore del Maxxi nel suo ufficio e sopra la sua scrivania c’era un’opera d’arte dell’artista cileno Alfredo Jaar basata sulla prima pagina del quotidiano antifascista Giustizia e libertà che annunciava la morte di Antonio Gramsci nel 1937. Giuli ha detto che Meloni ha segnato un nuovo capitolo, e che dopo alcuni anni di rabbioso populismo l’Italia è tornata alla “normale dialettica tra conservatori e progressisti” andando oltre quella “del popolo contro l’establishment”.

I pestaggi compiuti dagli agenti di polizia hanno suscitato un timore diffuso

Ha spiegato che il Maxxi s’inserirà nelle più ampie strategie geopolitiche del governo, incluso il Piano Mattei per l’Africa, un accordo commerciale da 5,5 miliardi di euro in gran parte focalizzato sull’energia e sulla prevenzione dell’immigrazione. C’è già un Maxxi all’Aquila, la città abruzzese devastata dal terremoto del 2009, e ora si sta progettando un Maxxi Med a Messina, che offrirà spazi espositivi e formazione museale anche per persone provenienti dal Maghreb. Gli ho detto che mi suonava come un progetto neocoloniale, ma Giuli ha replicato che era “l’esatto contrario”. Ha parlato dei re etruschi che colonizzarono l’antica Roma e ha detto che i paesi africani che l’Italia aveva brutalmente colonizzato nel novecento usarono poi l’architettura dell’epoca fascista. “Ci rendiamo conto che l’Italia ha commesso errori tragici e violenze, ma anche che il mondo africano è capace di usare ciò che resta della presenza coloniale e addirittura di riappropriarsene”, ha aggiunto.

Buttafuoco e Giuli, insieme ad Annalena Benini, che Meloni ha nominato nuova direttrice della Fiera internazionale del libro di Torino, sono tutti giornalisti e collaboratori del quotidiano il Foglio, un giornale di centrodestra con una copertura culturale raffinata e una scrittura elegante. È un quotidiano filoamericano, a­tlantista, sionista, che sostiene l’Ucraina, contrario a Trump, antiabortista e critico nei confronti di quella che considera un’eccessiva interferenza del sistema giudiziario italiano. Prima che Meloni fosse eletta il direttore del giornale Claudio Cerasa mi aveva detto che la vedeva come una sorta di Trump incline a credere alle teorie del complotto, ma ora ha preso atto che c’è stata una normalizzazione. “Non è fascismo. Al contrario, qui c’è un grande spirito di libertà”, mi ha detto. Come prova, mi ha fatto notare che in Italia Woody Allen è ancora popolare, e anche Roman Polanski. Ho chiesto se fosse una buona cosa. Naturalmente, ha detto Cerasa. L’atmosfera dell’era Meloni è contraria alla cancel culture, anche se in Italia non è stato cancellato nessuno, per quanto ne so. Per la maggior parte, il paese sembra aver evitato la reazione che ha portato a eliminare nomi e testi del passato, saltando direttamente alla reazione a quella reazione. A parte la fretta del governo di nominare persone fidate in posti importanti, è in corso una battaglia di idee sulla nazionalità, su cosa significa essere italiani. Meloni e il suo governo parlano spesso di patria. Il termine italianità, dell’era fascista, è rientrato nel discorso politico. Sangiuliano vuole dedicargli un museo in Emilia-Romagna. Quando gli ho chiesto di definire cosa intendeva per italianità, mi ha risposto, in modo piuttosto enigmatico, che “è quella particolare condizione propria del nostro popolo grazie alla quale la consuetudine con il bello porta alla quasi innata propensione al ben fatto”.

Ma il governo spesso preferisce l’esclusione all’inclusione: Meloni ha una forte tendenza a usare quelli che considera nemici – i migranti, i genitori dello stesso sesso, gli intellettuali che la criticano – come uno strumento per costruire consenso. Per anni, nelle sue campagne ha affermato che una famiglia dovrebbe essere formata da una madre e un padre, non da “un genitore uno e un genitore due”.

Non riconosciuti

L’Italia ha legalizzato le unioni civili tra persone dello stesso sesso nel 2016, quando al governo c’era il centrosinistra, e Meloni sta cercando di rendere illegale la registrazione all’anagrafe dei bambini nati da coppie gay attraverso la gestazione per altri all’estero. In Italia e in gran parte dell’Europa occidentale la gestazione per altri è illegale, posizione condivisa dai tradizionalisti cattolici e da quella sinistra che la vede come una mercificazione del corpo delle donne, ma questa pressione spaventa le coppie omosessuali e i sostenitori dei diritti dei gay in Italia. Meloni ha detto che non cancellerà la legge sull’aborto del 1978, ma ha appena approvato una norma che consente alle organizzazioni pro-vita di entrare nei consultori pubblici per dissuadere le donne che vogliono interrompere una gravidanza (la maggioranza dei medici italiani sono obiettori di coscienza che non eseguono l’intervento). Nel frattempo ha incoraggiato gli italiani ad avere più figli ed è apparsa accanto a papa Francesco per rafforzare questo messaggio. Il paese ha appena registrato il tasso di natalità più basso da quando fu proclamata l’unità d’Italia nel 1861.

Una battaglia di idee sulla nazionalità e su che cosa significa essere italiani

Al di là del problema demografico, c’è anche una questione culturale. “Quando Giorgia Meloni dice: ‘Fate figli’, non si sta rivolgendo a me”, mi ha detto Djarah Kan, scrittrice e giornalista italiana con genitori originari del Ghana. Eravamo sedute in un bar a San Lorenzo, ex quartiere operaio sempre più gentrificato, come gran parte di Roma. Se avesse un bambino con un altro italiano nero, ha continuato, “in teoria, anche se non in pratica, non sarebbe considerato un vero italiano dallo stato”. Questo sentimento di esclusione la fa infuriare: “Mi sento offesa, presa in giro. Stanno cercando d’inventare di sana pianta un modello di italianità che non corrisponde alla realtà. Vogliono imporre la loro idea di società a un paese che sta cambiando, anche se lentamente. Perché la società italiana sta cambiando, e sono tanti i trentenni come me, di origine cinese, africana o indiana, che hanno la residenza e vivono qui. E ogni volta che sentiamo parlare di italianità o di made in Italy e di chi ha diritto di essere considerato italiano o no, ci viene da ridere, ma ci viene anche la nausea”.

“È tutto così stagnante”, ha continuato Kan. Molti dei suoi compagni delle superiori, anche loro figli d’immigrati africani, sono andati all’estero per avere migliori opportunità di lavoro dopo la laurea. La stessa cosa succede nelle scuole private più esclusive, molte delle quali sono anglofone. L’Italia è unica tra i principali paesi dell’Unione europea in cui la classe dirigente prepara i propri figli a emigrare.

Il monologo di Scurati

Il governo Meloni sta anche combattendo battaglie di retroguardia sul passato. Ha approvato l’istituzione a Roma di un museo dedicato alle vittime delle foibe, le rappresaglie compiute durante o subito dopo la seconda guerra mondiale dai comunisti di Tito su militari fascisti e civili in territori che erano italiani e che oggi fanno parte di Croazia e Slovenia. Sangiuliano e il governo hanno promosso l’iniziativa, affermando che quei massacri sono stati minimizzati dai precedenti governi di centrosinistra.

In aprile la Rai è stata accusata di censura dopo aver cancellato un monologo di Antonio Scurati, l’autore del best seller sull’Italia di Mussolini M (Bompiani 2022). Nel suo intervento sul giorno della Liberazione, Scurati dice: “Il gruppo dirigente postfascista, vinte le elezioni nell’ottobre 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neofascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via”. Scurati in passato aveva criticato Meloni per non aver riconosciuto il contributo della Resistenza alla fine del fascismo e il fatto che la costituzione italiana è nata dall’antifascismo. Nel suo monologo afferma che la presidente del consiglio ha denunciato i nazisti “senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista”. Meloni ha dichiarato che la cancellazione del monologo era stata una scelta economica, ma una fuga di notizie dalla Rai indica chiaramente che si è trattato di una scelta editoriale. Meloni ha poi pubblicato il monologo sulla sua pagina Facebook, una scelta indicativa dell’imprevedibilità e della confusione alimentate dal governo, che rende difficile definire l’esecutivo.

Meloni ha affidato le cariche culturali più importanti a uomini di destra

L’Italia, che cominciò la guerra con l’Asse e la concluse con gli Alleati, non si è mai sottoposta a un esame di coscienza come la Germania. Il governo Meloni potrebbe rappresentare un’occasione per farlo. Invece sta attaccando chi lo critica e spostando la narrazione su episodi come quello delle foibe, da sempre un’ossessione della destra. Ma allo stesso tempo è attento a onorare gli ebrei vittime dell’Olocausto. A marzo Sangiuliano ha commemorato con il ministro della cultura tedesco uno dei peggiori massacri avvenuti nel paese in tempo di guerra: l’esecuzione da parte dei nazisti di 335 civili italiani nel 1944 alle Fosse ardeatine.

Il governo Meloni trova più difficile affrontare la violenza contemporanea. A gennaio ha chiuso un occhio quando un gruppo di militanti di estrema destra ha fatto il saluto romano durante un raduno per ricordare alcuni ragazzi uccisi negli scontri con gruppi di sinistra e polizia negli anni settanta. La corte costituzionale ha stabilito che il saluto romano è un reato se viene usato per esprimere la volontà di ricostruire il partito fascista; non lo è se viene fatto come atto commemorativo.

A febbraio sono circolati video in cui i poliziotti di Pisa e Firenze picchiano adolescenti disarmati che manifestano a sostegno della Palestina. Il presidente della repubblica Sergio Mattarella, una figura istituzionale che normalmente non interviene su questioni simili, ha rimproverato il ministro dell’interno: “L’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli, ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni (…) Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”.

I pestaggi compiuti dagli agenti hanno suscitato un timore diffuso. “La cosa che mi preoccupa è la censura delle voci più giovani, delle voci dei dissidenti, delle voci della controcultura”, mi ha detto la scrittrice Nadeesha Uyangoda a una fiera del libro di case editrici indipendenti, in una nebbiosa Milano. Nata in Sri Lanka e cresciuta a Milano, è autrice di L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd 2021) e ha una rubrica sulla rivista Internazionale. “Fa parte della cultura italiana scendere in piazza e manifestare. È un atto culturale perché occupi uno spazio pubblico con il tuo corpo. E se lo stato lo impedisce picchiandoti, vuol dire che non c’è spazio per un’idea diversa che non sia conforme a quella del governo”, mi ha detto Uyangoda.

Ha aggiunto che trova i discorsi sull’italianità sciocchi ma pericolosi. L’Italia, dopotutto, è il paese del campanilismo, delle persone aggrappate alle tradizioni e al dialetto delle loro città. “Solo un gruppo di politici di estrema destra può pensare di poter riportare in vita un concetto di nazionalità, di italianità che in Italia non esiste più”, ha detto. Le ho chiesto se prendeva sul serio la retorica del governo. Dopo una pausa, ha risposto: “A volte non ci riesco”, mi ha risposto. “Ma poi penso a come non li abbiamo presi sul serio sei anni fa e guarda cos’è successo. Quindi bisogna prenderli sul serio questa volta, perché evidentemente hanno un impatto sul paese”.

Già prima delle polemiche per il 25 aprile Scurati era preoccupato: “Non pensavo che una vittoria dell’estrema destra avrebbe compromesso la democrazia. Temevo che potesse rappresentare una minaccia per la qualità della vita democratica, non per la sua sopravvivenza. Ma sta andando sempre peggio. Lo vediamo nel mondo della cultura. I pochi, pochissimi intellettuali che criticano il governo diventano oggetto di attacchi violenti e offensivi”.

Dopo la crociata contro Scurati del quotidiano di destra filogovernativo Libero, qualcuno ha lasciato feci secche nel palazzo dove abita a Milano e sul muro è apparsa la scritta “Scurati merda”. Lui ha denunciato l’accaduto: “Quando il questore mi ha chiesto se volevo essere protetto, ho pensato ‘adesso abbiamo un problema’. La situazione è molto pesante per le persone che vogliono esprimere quello che pensano. Quasi nessuno dei miei colleghi scrittori, la maggior parte di sinistra, parla apertamente. In molti si occupano semplicemente del proprio orticello”.

Mentre alcuni personaggi pubblici esprimono dissenso, come Saviano, o difendono i diritti dei gay, come l’influencer Chiara Ferragni, la maggior parte dei protagonisti della cultura, per non parlare dell’establishment, sembra tenere la testa bassa o cercare modi per sfruttare il nuovo ordine a proprio vantaggio. Loredana Lipperini, conduttrice di lunga data di Fahrenheit, un programma dedicato ai libri di Rai Radio3, ha usato lo stesso termine di Scurati: l’orticello. “Vedo da un lato un grande rivolgimento introspettivo e, con alcune eccezioni degne di nota, ciò che mi colpisce è che la maggior parte dei romanzi che escono oggi sono intimi, autobiografici, e concentrati su di sé. Mi allarma questa tendenza per cui tutti, tranne qualche eccezione, si prendono cura solo del proprio orticello”. Per Lipperini è il segno che gli esponenti della cultura non sono pienamente coinvolti nei temi del momento. Istituzionalmente e culturalmente, la sinistra non ha offerto una risposta chiara all’estrema destra, con le sue posizioni ben definite su immigrazione, confini e identità nazionale.

Mesi fa in Italia ha avuto un enorme successo il film C’è ancora domani, diretto e interpretato da Paola Cortellesi. Girato in bianco e nero e ambientato nel 1946, racconta la storia di una battagliera donna romana che mantiene la sua dignità di fronte a un marito violento e a un suocero insopportabile. In Italia il film ha venduto più biglietti di Barbie. Tocca un nervo scoperto, non solo perché è uscito nelle sale quando un femminicidio stava richiamando l’attenzione sull’alto tasso di violenza contro le donne in Italia. L’interpretazione di Cortellesi è stata ottima, ma ho trovato l’opera riduttiva: avevamo davvero bisogno di ricordarci che le donne qui hanno diritto di voto? Eppure sono rimasta colpita dal numero di donne italiane che mi hanno detto quanto il film fosse stato importante per loro. Le aveva dato forza e aveva trasmesso un senso di solidarietà, mostrando il potere dell’azione collettiva, l’alternativa all’orticello.

Paura di andare avanti

Nel febbraio 1948 la rivista Partisan Review pubblicò un saggio dello scrittore antifascista e antistalinista Nicola Chiaromonte, che catturava l’atmosfera a due mesi dalle prime elezioni della repubblica italiana, quelle in cui vota anche la protagonista di C’è ancora domani. “L’Italia non è cambiata”, scriveva Chiaromonte a proposito di quel breve periodo di transizione, appena due anni dopo il plebiscito del 1946 in cui gli italiani avevano scelto di diventare una repubblica democratica e non una monarchia.

“Con il crollo del fascismo, solo il regime era stato rinnegato. L’autorità fascista e la struttura statale non esistevano più. Era crollata la facciata, ma tutto quello che c’era dietro era ancora lì. Solo che tutto somigliava ai frammenti sparpagliati di una società sparpagliata. Tutto era in uno stato di sospensione: il conservatorismo insieme al bisogno di cambiamento; le abitudini autoritarie insieme agli impulsi libertari; il nazionalismo e il naturale cosmopolitismo degli italiani. La libertà politica, come esiste oggi in Italia, è uno stato di sospensione. Ma fa comunque la differenza. La semplice libertà d’espressione ha dato al paese una vivacità che sembra una nuova vita. La sfortuna ha fatto sentire gli italiani uniti come mai si erano sentiti prima. Il paese è tutt’altro che inerte. Ma l’apparente immutabilità della società è una zavorra per tutti”, affermava Chiaromonte.

Nel tentativo di dare un senso all’oggi, ho ripensato a quel saggio ancora così illuminante sulle infinite complessità dell’Italia. Appena fuori piazza Venezia sono rimasta a lungo nel traffico di via del Plebiscito, dal nome del plebiscito del 1946. La società da allora è cambiata. L’Italia è rimasta un paese libero, ma la sua apparente immutabilità pesa ancora su tutti.

Ho pensato a Djarah Kan, al suo dinamismo e alla sua energia, come quella di tanti giovani che si scontrano costantemente con il muro di gomma della tradizione, dell’esclusione, delle strutture di potere, dal sistema di tassazione alla chiesa cattolica, progettate per mantenere il controllo e la ricchezza nelle mani di chi già ce l’ha e che ha paura di accogliere i nuovi arrivati. “Gli italiani devono sempre tornare indietro perché hanno troppa paura di andare avanti”, mi ha detto Kan. “A loro piace sempre rimanere nella condizione in cui stanno peggio perché almeno è una condizione familiare, conoscono già quella sofferenza”. Entrambe abbiamo riso. Cos’altro potevamo fare? Kan sta lavorando a un romanzo. “Appena avrò finito il mio libro, voglio andarmene di qui”, almeno per un po’, mi ha detto. “Questo paese è un museo mal gestito”. Quando i figli degli immigrati vogliono diventare emigranti, forse significa che anche loro hanno assorbito l’italianità. ◆ bt

Rachel Donadio è una giornalista statunitense. Scrive dall’Europa per il mensile The Atlantic e altre testate. Per il New York Times è stata corrispondente da Roma e corrispondente culturale per l’Europa da Parigi.

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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati