Circa quattro anni fa un nuovo paziente si è rivolto a me per una consulenza psichiatrica. Si sentiva bloccato: era in terapia da quindici anni anche se la depressione e l’ansia che l’avevano spinto a cercare aiuto erano sparite da tempo. Invece di lavorare sui problemi legati ai suoi sintomi, parlava delle vacanze, della ristrutturazione della sua casa e delle difficoltà che aveva in ufficio. Il suo terapeuta era diventato un amico piuttosto costoso e molto comprensivo. Eppure, quando gli ho chiesto se pensava di terminare le sedute, è diventato esitante, quasi ansioso. “Ormai fanno parte della mia vita”, mi ha detto.

La psicoterapia, per chi può permettersela, spesso diventa un impegno a lungo termine, come fare sport o andare dal dentista. Tante e tanti psicoterapeuti e i loro pazienti, insieme alle celebrità e ai mezzi d’informazione, hanno sposato l’idea che bisogna andare in terapia per molto tempo, pure quando si sta bene. Il problema è che non sempre le terapie sono pensate per durare così a lungo. Anche se ne esistono molte varianti, il loro obiettivo è lo stesso: non aver più bisogno delle sedute perché ci si sente in grado di proseguire da soli. L’interruzione non deve essere definitiva. Se un paziente o una paziente sono seguiti da tempo, hanno superato la fase acuta e hanno sintomi meno intensi si può prendere in considerazione l’idea di fare una pausa.

La terapia, a breve e a lungo termine, può cambiare la vita. Quella a breve termine tende a concentrarsi su problemi specifici. Nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, di solito usata per la depressione e l’ansia, uno specialista aiuta il paziente a liberarsi dei sentimenti negativi correggendo le percezioni distorte che ha di se stesso. Nella terapia dialettico-comportamentale, comunemente usata per il disturbo borderline di personalità, i pazienti imparano a gestire le emozioni più forti, cosa che li aiuta a migliorare l’umore e i rapporti con gli altri. Entrambi i metodi durano in genere meno di un anno. Se poi il paziente si sente inquieto o sopraffatto dagli eventi della vita, può riprendere la terapia per un altro periodo. La possibilità di un’interruzione è considerata del tutto normale.

Altre terapie, come quella psicodinamica e la psicoanalisi, sono pensate per durare diversi anni, ma non per sempre. In questo caso l’obiettivo principale è molto più ambizioso del sollievo dai sintomi, e consiste nell’individuare le cause inconsce della sofferenza e cambiare le dinamiche interiori del paziente. Uno studio molto accreditato indica che per chi soffre di disturbi psichiatrici significativi la terapia a lungo termine è altamente efficace e superiore a quelle più brevi, mentre altre ricerche hanno prodotto conclusioni meno chiare. Pochi altri studi hanno confrontato gli effetti delle terapie a breve e a lungo termine, ma solo sui pazienti con sintomi lievi. Di contro, esistono motivi per credere che in assenza di sintomi acuti in alcuni casi la psicoterapia possa risultare dannosa. Un’attenzione eccessiva verso se stessi – facilitata da un contesto in cui si paga per parlare delle proprie emozioni – può far aumentare l’ansia, soprattutto se le sedute sostituiscono le azioni concrete. Se i sintomi nevrotici o depressivi sono relativamente lievi (cioè non interferiscono con la vita di tutti i giorni), forse è meglio frequentare di meno lo studio di uno psicoterapeuta e passare più tempo con gli amici, dedicarsi a un hobby o fare volonta­riato.

Sedute “preventive”

Un mio amico d’infanzia, i cui genitori erano entrambi psicoanalisti, andava in terapia tutte le settimane. Era un ragazzo felice ed energico, ma i suoi genitori volevano che lui e sua sorella fossero preparati al meglio per affrontare le avversità. Entrambi sono diventati adulti di successo, ma anche molto ansiosi e nevrotici. Probabilmente i loro genitori hanno pensato che senza la terapia avrebbero vissuto peggio, anche perché avevano persone con disturbi mentali in famiglia. Ma non riesco a trovare una prova clinica a sostegno di questa psicoterapia “preventiva”.

In ogni caso, andare in terapia è di per sé un privilegio. Non è quasi mai inclusa nell’assicurazione sanitaria, dunque buona parte delle persone che ne avrebbero bisogno non può permettersela. Per quanto riguarda la possibilità di interromperla quando si è pronti (magari liberando un posto per chi in quel momento ne ha più bisogno) riconosco che non è facile. Se siete in terapia per un grave disturbo mentale, come una forte depressione o una sindrome bipolare, dovete assolutamente consultarvi con il vostro terapeuta per capire se per voi è arrivato il momento di interrompere. Tenete però presente che potrebbe essere restio a sospendere le sedute. Oltre a esserci un incentivo economico a continuare, infatti, rinunciare a un paziente piacevole diventato poco impegnativo non è facile.

La mia regola generale è questa: se negli ultimi sei mesi il paziente non ha avuto sintomi del suo disturbo o ne ha avuti in quantità minima, allora è possibile valutare una pausa. Se con la vostra terapeuta doveste concludere che è il momento, l’ideale è stabilire una sospensione temporanea con una chiara “data di scadenza”. Se doveste sentirvi peggio, potrete tornare indietro in qualsiasi momento.

In psichiatria si adotta un sistema simile con gli psicofarmaci. Per esempio, quando prescrivo un antidepressivo e il paziente rimane stabile e senza sintomi per anni, di solito valuto la possibilità di ridurre il dosaggio per stabilire se il farmaco è ancora necessario. Lo faccio unicamente se c’è un basso rischio di ricadute, per esempio con chi ha avuto solo un paio di crisi nel corso della vita. Sospendere la psicoterapia dovrebbe essere ancora meno rischioso: a differenza di un farmaco, infatti, fornisce conoscenze e abilità che il paziente porterà in ogni caso con sé, che continui o smetta.

Circa un anno dopo aver parlato con quel paziente dell’ipotesi di interrompere la terapia, l’ho incontrato in un bar. Mi ha detto che gli erano serviti sei mesi per sospendere le sedute, ma ora finalmente si sentiva bene. Forse anche voi siete preoccupati all’idea di smettere da un giorno all’altro e definitivamente. In tal caso vi consiglio di prendervi una pausa dalla terapia. Potrebbe essere il modo migliore per capire quanta strada avete fatto.◆ as

Richard A. Friedman è professore di psichiatria clinica e direttore della clinica di psicofarmacologia del Weill Cornell medical college di New York.

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Questo articolo è uscito sul numero 1553 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati