Le relazioni tra Israele e il governo di Joe Biden hanno toccato il punto più basso dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, dopo che il 25 marzo gli Stati Uniti si sono astenuti in un voto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza. L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro Washington dopo la decisione di non usare il suo potere di veto, affermando che la mossa è un “chiaro arretramento rispetto alla posizione coerente degli Stati Uniti” e che “dà speranza ad Hamas”, nel momento in cui sono in corso i negoziati a Doha, in Qatar, per raggiungere un accordo sugli ostaggi.

Gli Stati Uniti avevano segnalato che avrebbero sostenuto una risoluzione non vincolante per un “cessate il fuoco immediato” durante il mese sacro musulmano del Ramadan. Il testo chiede ad Hamas di liberare gli ostaggi, ma non collega direttamente la loro sorte a una tregua. Subito dopo l’approvazione della risoluzione, Netanyahu ha annullato la visita a Wash­ington di una delegazione israeliana che doveva discutere l’imminente invasione di terra a Rafah, nel sud della Striscia.

Dopo il voto, i funzionari statunitensi hanno insistito sul fatto che l’astensione non segna un cambiamento di linea politica. Ma gli analisti prevedono che questo potrebbe essere solo l’inizio di maggiori tensioni con Israele, dato che Netanyahu giura di voler procedere con l’attacco a Rafah, in una lotta per la sua sopravvivenza politica. “Questo comportamento è tipico di Netanyahu”, spiega Merissa Khurma, direttrice del programma sul Medio Oriente del Wilson center, un ente che si occupa di affari internazionali con sede a Washington. “Non gli piace essere messo all’angolo e continuerà a fare resistenza”.

Niente è scontato

L’amministrazione Biden è in contrasto con Israele su vari punti. L’offensiva israeliana su Gaza ha causato più di 32mila morti palestinesi, soprattutto donne e bambini, secondo i funzionari sanitari palestinesi. Il bilancio ha scatenato l’indignazione contro il presidente tra i progressisti e gli arabi statunitensi, una reazione che può incidere sulle elezioni del 2024. Netanyahu ha anche respinto gli appelli degli Stati Uniti a sostenere l’Autorità nazionale palestinese (Anp) e a gettare le basi per una ripresa dei colloqui sulla soluzione dei due stati.

Fino al 25 marzo l’amministrazione Biden ha segnalato la sua frustrazione nei confronti dello stato ebraico principalmente attraverso intermediari, messaggi obliqui e fughe di notizie. Biden ha usato eventi della campagna elettorale per criticare Israele e ha definito i suoi bombardamenti “indiscriminati”. Gli Stati Uniti però hanno voluto mantenere degli strumenti di pressione su Israele perché rivedesse le sue azioni a Gaza. Per esempio, l’amministrazione Biden ha continuato a fornire armi a Israele, spesso aggirando il congresso. Dal 7 ottobre, quando è scoppiata la guerra, ha posto tre veti contro le richieste di cessate il fuoco all’Onu. Aaron David Miller, ex negoziatore statunitense in Medio Oriente, ha dichiarato che la decisione di astenersi è il “primo dato empirico” della pressione di Wash­ington su Israele. Per Martin Indyk, ex ambasciatore statunitense in Israele, segnala a Netanyahu “che non deve dare per scontato il sostegno americano”.

Da sapere

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, ha presentato il 26 marzo al consiglio dei diritti umani un rapporto che accusa Israele di aver commesso atti di genocidio a Gaza e chiede sanzioni economiche e un embargo sulle armi a Tel Aviv. Il rapporto sostiene che ci sono “fondati motivi” per credere che lo stato ebraico sta compiendo tre delle cinque azioni definite come genocidio: uccidere i civili, causargli gravi danni fisici o mentali e infliggere deliberatamente condizioni di vita intese a determinare la distruzione fisica della popolazione nel suo insieme o in parte. Decine di rappresentanti dei paesi arabi e musulmani, ma anche dell’America Latina, hanno espresso il loro sostegno alla relatrice, che ha parlato a titolo personale e non dell’organizzazione. Afp, The Guardian


Anche se Israele fa affidamento sugli Stati Uniti per intercedere in suo favore all’Onu, non è chiaro se il gioco diplomatico dell’amministrazione Biden possa influenzare Tel Aviv e raggiungere i suoi obiettivi in politica estera. Ottenere un accordo tra Hamas e Israele che porti a una tregua di sei settimane è diventato l’asse principale attorno a cui ruota la politica statunitense, hanno confermato vari funzionari. L’amministrazione Biden spera che l’accordo possa trasformarsi in un cessate il fuoco duraturo che metta fine ai combattimenti a Gaza e consenta la ripresa dei negoziati per una soluzione dei due stati, con un’Anp rafforzata nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata.

Mandare un segnale

Più nell’immediato, gli Stati Uniti vogliono far affluire gli aiuti umanitari nella Striscia e prevenire un attacco di terra israeliano a Rafah, la città al confine meridionale dove sono rifugiati circa 1,5 milioni di sfollati palestinesi. “La mossa del 25 marzo manda un segnale, non fa la differenza” per raggiungere questi obiettivi, sostiene David Miller, aggiungendo che il voto degli Stati Uniti e la spaccatura pubblica con Israele potrebbero irrigidire la posizione negoziale di Hamas, che ha puntato la sua pretesa di vittoria sulla semplice sopravvivenza a un feroce attacco israeliano.

I colloqui a Doha, mediati da Egitto e Qatar, sembrano essersi arenati. Hamas ha accolto con favore la risoluzione dell’Onu e si è detto pronto a negoziare il rilascio di ostaggi in cambio di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.

Gli Stati Uniti sperano d’isolare politicamente Netanyahu, ma il primo ministro non è l’unico alto funzionario israeliano a voler proseguire la guerra a Gaza. E anche la maggioranza dei cittadini è a favore dell’attacco a Rafah. Il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha confermato che la guerra non finirà finché Israele non otterrà il rilascio dei circa 130 ostaggi che ritiene siano ancora nelle mani di Hamas. “Se non otterremo una vittoria decisiva e assoluta a Gaza, si prospetterà una guerra più grande nel nord”, ha detto, riferendosi ai combattimenti in corso contro Hezbollah lungo il confine con il Libano.

Un indicatore chiave della volontà di Washington di aumentare la pressione su Israele può arrivare nei prossimi mesi, quando il segretario di stato Antony Blinken dovrebbe certificare se l’uso delle armi statunitensi da parte di Israele rispetta il diritto internazionale umanitario. Netanyahu non è nuovo a scontri con i leader statunitensi e potrebbe esercitare pressioni su Biden facendo leva sul sostegno di cui gode tra i politici repubblicani. ◆ dl

Le reazioni
Il prezzo da pagare

Alon Pinkas scrive su Haaretz che Israele fa finta di essere sorpreso dalla decisione degli Stati Uniti di astenersi al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Washington aveva lanciato molti avvertimenti, che il governo di Benjamin Netanyahu ha ignorato: “Quando respingi le richieste statunitensi, liquidi il parere di un presidente, inondi il segretario di stato di propaganda infinita, deridi i loro piani, mostri sprezzo e intransigenza rifiutando di presentare una visione credibile e coerente per una Gaza postbellica e cerchi uno scontro aperto con l’amministrazione, c’è un prezzo da pagare”. Per Pinkas Israele si trova ora in una posizione molto scomoda, e anche se sotto Netanyahu le relazioni con Washington erano deteriorate da tempo, la risoluzione dell’Onu segna “un nuovo punto più basso”.

Al Jazeera concorda sul fatto che la decisione degli Stati Uniti indica la “crescente frustrazione” nei confronti del premier israeliano, ma aggiunge che “non è abbastanza”. Come hanno sottolineato diversi attivisti per i diritti umani palestinesi, serve un “ripensamento di fondo del sostegno di Washington a Israele, oltre il simbolismo e la retorica”. La vera questione, commenta Al Jazeera, è “se ora l’amministrazione Biden userà la sua influenza per spingere Tel Aviv a non compiere altri abusi contro i palestinesi a Gaza”, innanzitutto fermando l’invio di armi e favorendo l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia.

In un editoriale, Al Quds al Arabi commenta che non deve stupire il cambio di atteggiamento di Washington, che ha deciso di astenersi dopo aver usato per tre volte il suo potere di veto per bloccare altre risoluzioni a favore di un cessate il fuoco: “Non è una novità vedere la politica statunitense in uno stato confusionale quando si tratta di Israele”. Tuttavia le posizioni contraddittorie di Wash­ington sono “paradossali”, continua il giornale panarabo, e l’applicazione della risoluzione dipenderà anche dai rapporti tra le varie forze opposte. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati