Non si fermano le proteste e gli scontri tra polizia e manifestanti a Bujumbura, la capitale del Burundi. Un manifestante è stato ucciso dalla polizia questa mattina, facendo salire a 21 il numero dei morti dall’inizio delle proteste, scoppiate il 25 aprile. Nel quartiere di Musaga i poliziotti hanno lanciato gas lacrimogeni contro i manifestanti che hanno risposto con il lancio di pietre. Il 20 maggio, il presidente Pierre Nkurunziza con un decreto ha rinviato le elezioni parlamentari, previste per il 26 maggio al 5 giugno per tentare di placare le proteste, che invece non si sono fermate. Le elezioni presidenziali, che hanno scatenato le violenze, rimangono fissate per il 26 giugno.

Nkurunziza, nonostante le opposizioni da quasi un mese gli chiedano a gran voce di fare un passo indietro sulla sua candidatura, continua a sostenere che un suo eventuale terzo mandato non violerebbe la costituzione, perché in realtà il suo primo mandato era stato di nomina parlamentare. Il presidente “è diventato un re” dicono i manifestanti, che temono che il paese possa tornare nel caos.

Le proteste rischiano infatti di riaprire vecchie ferite in un paese che ha un passato di scontri etnici tra hutu (che rappresentano l’81 per cento della popolazione), e la minoranza tutsi (il 16 per cento). Dopo gli accordi di pace nel 2005, il paese ha introdotto la norma che impone che nelle istituzioni, nell’esercito e nella polizia siano rappresentate tutte le etnie.

Il nuovo ministro della difesa nominato il 18 maggio, Emmanuel Ntahonvukiye, e il capo di stato maggiore hanno fatto appello alla coesione dell’esercito. Il fallito colpo di stato del 13 maggio potrebbe infatti aprire una crisi profonda dividendo l’esercito che dalla fine della guerra civile è il principale elemento di unità del paese.

Dall’inizio delle violenze più di 110mila persone sono fuggite nel vicino Ruanda, nella Repubblica Democratica del Congo e in Tanzania, dove è scoppiata una epidemia di colera tra i profughi che vivono sulle rive del lago Tanganica.

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