In Cina sono scattate pesanti restrizioni sulle transazioni di borsa, in risposta al crollo della borsa di Shanghai. In dodici mesi l’indice generale della borsa valori cinese era cresciuto di oltre il 150 per cento fino al picco del 12 giugno scorso: da allora ha perso oltre il 32 per cento. L’autorità di borsa ha reagito vietando ai grandi azionisti la vendita di titoli per almeno sei mesi. Non potranno vendere azioni di una società gli investitori che ne detengano quote dal 5 per cento in su.

Il divieto riguarda anche manager e componenti dei consigli di amministrazione ed è stato accompagnato dalla minaccia di punizioni “esemplari” a carico dei trasgressori. Allo stesso tempo, il ministero delle finanze cinese ha ordinato a tutti gli enti pubblici e le istituzioni finanziarie controllate dallo stato di astenersi dall’effettuare qualunque vendita di azioni di società partecipate.

E si è mossa anche la banca centrale, annunciando che approvvigionerà di liquidità la China securities finance corporation, un veicolo interamente controllato dallo stato che sta conducendo operazioni di acquisto di titoli in senso contrario al mercato. Lo stesso veicolo ha fatto confluire 260 miliardi di yuan extra, quasi 38 miliardi di euro alle società di intermediazione finanziaria. Gli interventi, finora concentrati sulle grandi società, saranno d’ora in poi estesi anche a quelle di media capitalizzazione.

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