La città turistica di Barceloneta, Puerto Rico, il 3 luglio 2015. (Matt McClain, The Washington Post/Getty Images)

Il capo dello staff del governatore di Puerto Rico, Víctor Suárez, l’ha ammesso venerdì: “Domani, primo agosto, scade una rata del debito e noi non abbiamo i soldi. Il saldo non ci sarà nel fine settimana”. La piccola isola dei Caraibi non ha pagato 58 milioni di dollari di capitale e interessi sui titoli detenuti dai creditori. Da oggi, quindi, l’isola che aspira a essere il 51° stato degli Stati Uniti è ufficialmente in default, cioè insolvente.

Con i suoi 3,6 milioni di abitanti il piccolo stato dipendente da Washington si trascina un debito complessivo di 72 miliardi di dollari (66 miliardi di euro, 20mila euro pro capite) che non riesce a pagare con l’economia in recessione da otto anni.

I creditori di Puerto Rico non sono istituzioni internazionali, politiche o economiche, come nel caso della Grecia, che deve soldi al Fondo monetario internazionale, alla Banca centrale europea di Francoforte e ai soci dell’Unione europea che dal 2010 hanno emesso prestiti attraverso il fondo salvastati e la Commissione.

I creditori di Puerto Rico sono di più, più piccoli e in maggioranza privati. Si tratta di circa 350 tra hedge fund (o fondi speculativi, che aspettano circa 22 miliardi di dollari), singoli e cooperative che investono in hedge fund (circa 20 miliardi) e fondi d’investimento statunitensi (dieci miliardi). I debiti di Puerto Rico comprendono anche obbligazioni emesse da enti pubblici che forniscono servizi fondamentali come l’energia elettrica e l’acqua o si occupano della costruzione di strade e di fogne.

Una donna passa davanti a una banca chiusa a San Juan, Puerto Rico, il 29 giugno 2015. (Ricardo Arduengo, Ap/Ansa)

La crisi fiscale, che esplode oggi ma si trascina da mesi, si innesta su una crisi economica che è molto più lunga e radicata.

L’economia di Puerto Rico è cresciuta solo una volta negli ultimi dieci anni e ha una pressione fiscale minima che fa entrare pochi soldi nelle casse dello stato: imprese e servizi pagano il 4 per cento e chi prende la cittadinanza ha diritto all’esenzione totale sulle proprie rendite da capitale.

“Il debito non può essere pagato. Non c’è nessuna possibilità. Mi piacerebbe avere un’alternativa. Ma questa non è politica, è matematica”, ha detto a fine giugno il governatore dell’isola Alejandro García Padilla. Il suo governo e i creditori sono al lavoro per presentare un piano che affronti la situazione.

Da una parte, si prevedono aumenti di tasse e tagli allo stato sociale. Dall’altra, il paese deve ottenere dai creditori di potere ristrutturare il debito, cioè essenzialmente allontanare le scadenze per diluirne il peso nel tempo. In questo modo, nelle intenzioni delle autorità portoricane, l’economia dovrebbe essere messa nelle condizioni di cambiare rotta: puntare alla crescita e ricorrere meno al debito.

Proprio come è successo ad Atene che fa parte dell’euro, Puerto Rico non può svalutare la sua moneta per uscire in fretta dalla crisi, perché utilizza il dollaro statunitense e quindi deve rispettare i vincoli dovuti all’appartenenza a una comunità monetaria. La crisi di Puerto Rico assomiglia quella greca anche perché entrambe le economie non crescono e avrebbero bisogno di un aiuto esterno per non restare soffocate dal proprio debito. Qui finiscono le affinità.

Puerto Rico usa il dollaro, ma l’impatto del suo default non è paragonabile ai contraccolpi che avrebbe avuto il ritorno della Grecia alla dracma sugli altri paesi dell’eurozona. La sua popolazione e la sua economia non sono tali da esporre al rischio di contagio gli Stati Uniti. Anche per questo, Washington ha chiarito subito che non attiverà alcun piano di salvataggio per il piccolo socio dei Caraibi, mentre Bruxelles si prepara a farlo per la terza volta con Atene.

Rispetto alla Grecia, poi, Puerto Rico ha una complicazione in più: visto che non è uno stato sovrano, ma uno stato libero dipendente da Washington, non può chiedere e ottenere prestiti dal Fondo monetario internazionale.

Non essendo però territorio statunitense, non può nemmeno usufruire della legge che protegge gli enti pubblici che dichiarano il default – il capitolo 9 – che ha aiutato dopo il fallimento la città di Detroit, per esempio. La capitale del Michigan ha ufficializzato la bancarotta nel 2013, ha ricevuto prestiti e nel dicembre del 2014 aveva già i conti in ordine. Puerto Rico ha cercato di fare modificare il capitolo 9 per poterne usufruire. Ha avuto il sostegno di qualche democratico, ma si è scontrato con l’opposizione della maggioranza repubblicana.

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