Poche ore dopo che la Francia e gli Stati Uniti avevano promesso d’intensificare la guerra contro il gruppo Stato islamico, in risposta agli attentati che hanno provocato 129 morti e più di 350 feriti a Parigi, i caccia francesi hanno cominciato a colpire la roccaforte del gruppo, Raqqa, nel nordest della Siria.
L’operazione è stata condotta in coordinamento con le forze statunitensi, ed entrambe le parti sembrano concordare anche sul nome che usano per indicare questo gruppo terroristico. Annunciando gli attacchi, il ministro della difesa francese si è riferito all’obiettivo “usato da Daesh come posto di comando”.
La traduzione offre agli acronimi la possibilità di moltiplicarsi
Barack Obama ha usato lo stesso nome quando ha parlato, al vertice dei leader del G20 in Turchia, di sforzi raddoppiati “per ottenere una transizione pacifica in Siria ed eliminare Daesh, una forza in grado di infliggere un dolore così grande agli abitanti di Parigi, Ankara e del resto del mondo”. Anche John Kerry, il segretario di stato americano, ha chiamato Daesh il gruppo Stato islamico nel corso di un incontro a Vienna.
Il nome del gruppo è stato indicato, a seconda dei casi, con le sigle Isis, Isil, Is e anche Sic. Perché questa confusione?
Uno dei motivi è che il gruppo si è evoluto nel corso del tempo, cambiando il suo stesso nome. All’inizio era una piccola ma brutalmente efficace fazione della resistenza sunnita all’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 che si faceva chiamare Al Qaeda in Iraq, o Aqi. Nel 2007, in seguito alla morte del suo fondatore (e alle accuse di essere troppo sanguinario, che gli sono state rivolte da Al Qaeda), Aqi ha cambiato nome in Stato islamico in Iraq, o Isi. In seguito ha subìto alcune battute d’arresto sul suo territorio ma, osservando la Siria sprofondare nella guerra civile nel 2011, ha intravisto un’opportunità.
Nel 2013 si era installato nella parte orientale della Siria, assumendo il nuovo e più aderente nome di Stato islamico in Iraq e Siria (Isis). Rendendo le cose ancora più complicate, l’Isis ha cambiato nuovamente nome nel giugno 2014 , proclamandosi Stato del califfato islamico (Sic), un titolo che riflette le sue ambizioni d’autorità su tutti i musulmani del mondo.
La traduzione offre agli acronimi nuove possibilità di moltiplicarsi. Nelle sue prime incarnazioni come Isis, il gruppo voleva mettere in discussione i confini “colonialisti” usando un vecchio nome geografico arabo, al Sham, che comprende sia la capitale siriana Damasco sia la più ampia regione del Levante, il che spiega la predilezione ufficiale statunitense per l’espressione Stato islamico dell’Iraq e del Levante (o Isil) invece che per Isis. L’equivalente arabo, Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham, può essere abbreviato in Daesh, così come il nome di Hamas (che significa zelo in arabo) per il gruppo palestinese è un acronimo di Harakat al muqawama al islamiya, ovvero Movimento di resistenza islamica.
Daesh è il nome che più si è diffuso nei paesi arabi, anche se i membri del gruppo lo chiamano semplicemente al dawla, lo stato, e minacciano di frustare quanti usano il termine Daesh.
Attribuire nomi sgradevoli a persone sgradevoli è una vecchia tradizione. Un po’come per il termine Nazi, che si è impresso in inglese anche a causa della sua somiglianza con parole come nasty (cattivo, disgustoso), Daesh ha un suono, per gli arabi, simile a quello di parole che significano calpestare, distruggere, sbattere contro qualcosa, e causare tensione.
Cogliendo questo aspetto, la Francia ha ufficialmente adottato il termine per gli usi governativi. Il suo ministro degli esteri, Laurent Fabius, ha spiegato che Daesh ha l’ulteriore vantaggio di non dare al gruppo la dignità di stato. Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, ha assunto un’analoga posizione di critica, denunciando il gruppo come un “Non-stato non-islamico”. Invece di adottare diligentemente l’acronimo Nins, l’Economist ha deciso, per ora, di continuare a chiamare il gruppo semplicemente Stato islamico (Is).
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su The Economist. Per leggere l’originale clicca qui.
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