In mezzo al disastro dello Yemen, due giovani donne che vivono ad Aden e Sanaa, devastate dalla guerra, sanno di essere relativamente fortunate: non muoiono di fame, le loro case non sono state distrutte e sono scampate a bombardamenti e pallottole. Ma entrambe desiderano ardentemente fuggire da un conflitto che spinge il loro paese verso la catastrofe.

Nessuna delle due riesce a immaginare una via d’uscita. “Non voglio perdere la vita per rincorrere un sogno”, spiega Nisma al Ozebi, studentessa d’ingegneria civile di 21 anni nella città portuale di Aden, nel sud del paese. Ambisce a una borsa di studio che rappresenterebbe per lei un lasciapassare per trovare riparo in Europa, ma aggiunge: “Non voglio lasciare lo Yemen per vivere come una profuga”.

La guerra civile yemenita si è inasprita circa un anno fa, quando una coalizione guidata dall’Arabia Saudita è intervenuta con attacchi aerei, un blocco navale e truppe di terra per fare fronte ai ribelli houthi che cercavano d’impadronirsi di tutto il paese.

Gli houthi, una tribù di sciiti zaiditi ora alleati con il loro vecchio nemico, l’ex presidente Ali Abdullah Salah, sono visti da Riyadh come uno strumento controllato dall’Iran, accusa respinta sia dai ribelli sia da Teheran.

“Si ha la sensazione che la morte ti aspetti dappertutto”, dice Kholood al Absi, 27 anni, che nel 2015 ha perso il suo lavoro in un’azienda di servizi petroliferi a Sanaa. “Dal cielo arrivano gli aerei sauditi. Da terra gli houthi, autobombe, esplosioni e scontri. Le vite degli yemeniti non sembrano valere molto”.

Al telefono spiega: “Ho un passaporto valido. Sarei pronta per partire”. Ma ammette che per ora si tratta di un’ipotesi irrealistica. La sua famiglia non le permetterebbe mai di viaggiare da sola, anche se avesse abbastanza denaro per studiare all’estero e farsi una nuova vita.

Inoltre non riesce a immaginare di accalcarsi in un’imbarcazione di rifugiati diretta a Gibuti. “È molto pericoloso. Credo quindi sia meglio per me morire a casa piuttosto che lontano da essa”, dice ridendo.

La guerra ha provocato danni devastanti a 26 milioni di yemeniti, che faticano a sopravvivere in un paese già di per sé povero

Circa 170mila persone hanno abbandonato lo Yemen finora, dirette soprattutto verso Gibuti, Etiopia, Somalia e Sudan. La maggior parte di loro non sono yemeniti ma profughi di ritorno e altri cittadini stranieri. Le Nazioni Unite prevedono che altre 167mila persone lasceranno il paese entro l’anno. Ma i rifugi di un tempo, come la Giordania, oggi impongono visti e condizioni molto restrittive per entrare.

La guerra ha provocato danni devastanti per 26 milioni di yemeniti, che faticano a sopravvivere in un paese già di per sé povero e afflitto da una grave carenza d’acqua, dalla corruzione e da una cattiva gestione politica.

Stime prudenti delle Nazioni Unite parlano di seimila persone uccise, metà delle quali civili, e di quattro quinti degli yemeniti che necessitano di aiuti dall’esterno. Più della metà di loro hanno scarso accesso al cibo e almeno 320mila bambini di meno di cinque anni sono gravemente malnutriti. Gli sfollati sono oltre 2,4 milioni.

Sogni rubati

I bassi standard di vita e dei livelli d’istruzione dello Yemen fanno sì che Nisma e Kholood, con le loro speranze di ottenere un visto per studiare in Europa, siano l’eccezione, non la regola. Ma se la guerra dovesse andare avanti, la disperazione potrebbe trasformare un piccolo flusso di profughi in una marea.

“Ero ambiziosa. Mi piaceva sognare e avevo molti progetti “, spiega Kholood parlando della sua vita prima della guerra. “Ma la guerra mi ha rubato tutto. Riesco a pensare solo che forse oggi o domani morirò. Mi sento già morta anche se continuo a respirare”.

Il paese che conosceva è andato a rotoli. “Ormai c’è una grossa distanza tra gli yemeniti. Prima tutti noi, sunniti e sciiti, andavamo nelle stesse moschee, ci ritrovavamo negli stessi posti. La guerra ci sta spingendo a seguire ciascuno la sua religione o il suo partito”, dice.

Le prove dell’impoverimento sono evidenti: “Molte persone chiedono la carità, cibo o denaro. Alcune sono persone istruite che hanno perso il lavoro e non riescono a dar da mangiare ai propri figli. Questa guerra gli ha portato via la dignità”, racconta Kholood. “Per me è insostenibile, ma la mia situazione è migliore di quella di tanti”.

Khalood spiega di sentirsi sola perché molti amici hanno lasciato lo Yemen, triste per i parenti che sono stati uccisi e inutile dopo la perdita del lavoro che amava.

Oggi, oltre che in faccende domestiche, passa il suo tempo su Facebook e a guardare i notiziari, soprattutto un canale tv che segnala rapidamente i luoghi dove avvengono gli attacchi aerei. “Quando sentiamo cadere le bombe, andiamo su quel canale per vedere dove stanno cadendo”, spiega.

Abitanti di Sanaa, nello Yemen, intorno a un cratere causato da un bombardamento della coalizione saudita, il 29 dicembre 2015. (Khaled Abdullah, Reuters/Contrasto)

Kholood non ama particolarmente gli houthi, ma se inizialmente sosteneva l’intervento saudita, ora ha cambiato idea. “Ci sembra che abbia distrutto lo Yemen. L’Arabia Saudita e gli altri paesi della coalizione stanno solo uccidendo le persone senza sentirsi minimamente in colpa. Moltissimi innocenti, civili e bambini, sono stati uccisi”.

I combattimenti non cesseranno tanto presto. La coalizione guidata dai sauditi, e che comprende soprattutto stati arabi sunniti, non è riuscita a ottenere una chiara vittoria nonostante la sua forza aerea e le sue risorse.

Nel luglio del 2015 gli houthi sono stati cacciati da Aden dalle milizie sunnite locali sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Il grosso dei combattimenti si è spostato a Taiz, una città ferocemente contesa e vicina alla capitale Sanaa, controllata dagli houthi, nel nord.

Il video dell’Afp


Eppure i combattivi houthi non s’arrendono. Bloccato ad Aden, il presidente sostenuto dai sauditi, Abd Rabbo Mansur Hadi, può contare sul riconoscimento internazionale, ma su uno scarso sostegno popolare, anche tra gli abitanti del sud del paese, da dove proviene.

La guerra ha inasprito il risentimento tra sunniti e sciiti, da tempo sopito, oltre che il divario tra il nord e il sud, un tempo separati.

Tra i principali beneficiari di questo caos ci sono i combattenti di Al Qaeda e del gruppo Stato islamico (Is), recentemente impiantatosi nel paese. Questa conseguenza involontaria, anche se prevedibile, della guerra preoccupa i principali fornitori di armi dell’Arabia Saudita: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Indipendentemente dai loro timori, le potenze occidentali forniscono munizioni, intelligence, rifornimenti e altre forme di sostegno alla coalizione guidata dai sauditi, nonostante questa sia responsabile di quelli che un comitato dell’Onu ha definito “attacchi diffusi e sistematici a bersagli civili”.

Alcune voci critiche, in Yemen e altrove, accusano gli Stati Uniti e i suoi alleati di essere disposti a sacrificare le vite di civili yemeniti pur di continuare a vendere armi, per miliardi di dollari, ai paesi del Golfo. Inoltre accusano l’occidente di cercare di placare le ire saudite per la fragile distensione in corso con l’Iran.

A fare le spese di questo caos sono milioni di yemeniti, tra i quali Kholood e Nisma, che vivono ogni giorno nella paura.

Con un padre e una matrigna che vivono in Giordania per ragioni di salute, Nisma si è trovata da sola a occuparsi di tre fratelli più giovani, compreso il suo fratello Mustafa di cinque anni, quando sono cominciati i combattimenti vicino alla sua abitazione, nel marzo del 2015.

Gli houthi e i loro alleati stavano attaccando l’aeroporto di Aden, città che Hadi aveva dichiarato sua capitale temporanea dopo esser stato cacciato da Sanaa. Per i successivi quattro mesi ci sono stati combattimenti di strada. Poche merci hanno potuto raggiungere le città assediate.

Modello Afghanistan

Nisma e i suoi fratelli hanno cambiato casa due volte, in cerca di una situazione più sicura. La prima volta, accalcati nell’auto di un vicino insieme ai cinque membri di una famiglia, sono andati a stare da una zia dopo l’esplosione di un missile vicino a casa loro. E poi, qualche giorno dopo, quando razzi e proiettili hanno colpito il quartiere della zia, nella casa della nonna.

Quando i combattimenti si sono placati, a luglio, la famiglia è tornata nella sua casa, nel quartiere di Khormaksar ad Aden, sorprendendosi nel trovarla intatta, a differenza di molte altre abitazioni.

Nisma spiega che la situazione è tornata in parte alla normalità, con il ritorno dell’acqua e della corrente elettrica. Ma le manca totalmente il senso di sicurezza. “Esco di casa ogni giorno pensando che da qualche parte, in qualsiasi momento, per mano di chissà chi, potrei essere uccisa”, dice.

I frequenti omicidi e gli attentati commessi negli ultimi sei mesi da combattenti islamisti, da altre fazioni e da bande criminali illustrano bene i nuovi rischi che si corrono nell’ex città cosmopolita del mare Arabico.

“Dicono di essere seguaci dell’Is, ma chissà”, spiega Nisma. “Se avranno l’arroganza di fermarci e dirci di vestire come vogliono loro, forse un giorno ci chiuderanno in casa. Il modello Afghanistan sta per arrivare qui”.

È questa paura che alimenta la sua volontà di fuggire da un paese in cui qualsiasi speranza di un futuro migliore è svanita.

“Tutti pensano di andarsene. Ma come? E dove?”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dall’agenzia di stampa britannica Reuters.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it