La “Uber economy” è relativamente piccola ma riceve molta attenzione. Si calcola che negli Stati Uniti gli autisti di Uber e gli altri lavoratori della cosiddetta gig economy (un modello economico basato su prestazioni lavorative temporanee) rappresentino solo lo 0,5 per cento della forza lavoro, ma nonostante questo nel paese si discute molto dell’opportunità di ridefinire le politiche per venire incontro a questo nuovo tipo di lavoro “su richiesta”.

Le continue notizie riguardo a Uber e i suoi ricchi consimili della Silicon valley possono far sembrare d’attualità o addirittura urgenti queste discussioni. Ma potrebbe darsi che ci stiano distraendo da un cambiamento economico molto più importante: il numero crescente di cittadini statunitensi che ricorrono a “soluzioni lavorative alternative”.

Gli economisti usano questa espressione per definire tutti i lavori atipici – temporanei, a chiamata, forniti da aziende subappaltatrici, eseguiti da freelance. Lavori accomunati dalle stesse mancanze: l’assicurazione sanitaria, il salario minimo e in generale di tutti i benefici e le garanzie legati a un contratto.

Secondo una nuova ricerca degli economisti Lawrence Katz e Alan Krueger, la percentuale di statunitensi che svolge un lavoro atipico è passata dal 10,1 per cento del 2005 al 15,8 per cento del 2015. E circa il 40 per cento delle persone che svolgono un impiego simile ha almeno un diploma universitario triennale.

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“La conclusione che si può trarre da queste cifre”, scrivono Katz e Krueger, “è che nel complesso la crescita dell’occupazione negli Stati Uniti tra il 2005 e il 2015 ha riguardato le soluzioni lavorative alternative”.

Pensateci un attimo. Katz e Krueger sostengono che negli ultimi dieci anni, in termini di occupazione sono cresciuti i posti di lavoro in settori che tradizionalmente non sarebbero considerati come veri e propri impieghi. Non è quel tipo di lavoro che permette di salire la scala sociale e che costituiva il cuore del sogno americano (un sogno che oggi è molto più difficile da realizzare). Sono incarichi temporanei, lavoretti esternalizzati, roba sostanzialmente transitoria.

Secondo l’ufficio delle statistiche per l’occupazione (Bls) il “lavoro contingente”, un concetto analogo, si riferisce a “qualsiasi impiego nel quale una persona non ha un esplicito o implicito contratto che permette un’occupazione di lungo periodo”. Il Bls ha cercato di disegnare la mappa di questi impieghi atipici per la prima volta nel 1995, quando già da alcuni anni le aziende avevano cominciato a sostituire i dipendenti tradizionali con lavoratori temporanei e sostituibili.

Le aziende della gig economy amano dire che il lavoro alternativo offre indipendenza e flessibilità

Nel decennio successivo il Bls ha riesaminato questi impieghi quattro volte, prima che i suoi fondi fossero tagliati. Da allora altri economisti hanno faticato a valutare correttamente la questione dei “lavoratori usa e getta”. Come faceva notare uno studio del 2014, “è stato difficile trovare prove di un’evidente e decisa preferenza per forme di lavoro contingente o non standard”.

La ricerca di Katz e Krueger è importante perché offre queste prove. Il lavoro temporaneo è in aumento e va oltre il caso di Uber. Per ogni autista di cui si parla, cresce il numero d’insegnanti, fornitori di servizi sanitari, custodi, amministratori pubblici e operai edili che vedono i loro impieghi esternalizzati.

Le aziende della gig economy amano dire che il lavoro alternativo offre indipendenza e flessibilità. Ma pone anche dei seri problemi. Tanto per cominciare, chi svolge un lavoro alternativo guadagna meno degli altri. Nel 2015, i lavoratori freelance hanno dichiarato guadagni settimanali del 28 per cento inferiori a quelli dei lavoratori ordinari, nonostante il loro salario orario fosse del 17 per cento più alto. I lavoratori esternalizzati hanno avuto retribuzioni orarie simili a quelle dei lavoratori ordinari, ma con stipendi settimanali del 26 per cento più bassi.

La crescita dei lavori alternativi potrebbe peggiorare il salario e il trattamento di chi ha un contratto. E le modifiche alle politiche del lavoro, pensate per un insieme ridotto di aziende come Uber, potrebbe avere delle conseguenze per aziende statunitensi molto più grandi, come Walmart.

Katz e Krueger se ne rendono conto. Il mercato del lavoro “sta evolvendo in modi che non sono colti appieno dalle statistiche ufficiali”, hanno scritto. “Esternalizzare e aumentare il ricorso a lavoratori autonomi minaccia gli standard dei contrattualizzati e contribuisce ad aumentare la disuguaglianza salariale?”.

La loro ricerca non fornisce risposte. Ma analizzando le statistiche relative a quello che appare come un grande cambiamento dell’economia degli Stati Uniti, dovrebbe attirare l’attenzione sul dibattito, facendo in modo non si limiti solo a Uber.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su Quartz.

This article was originally published in Quartz. Click here to view the original. © 2015. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency.

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