Bambini che soffrono la fame, una madre che uccide la figlia per disperazione, un’altra che lascia i suoi bambini soli la notte per lavorare e ripagare gli usurai. Molte storie tragiche del Giappone di oggi hanno in comune la povertà nascosta, e su questo, da quasi quindici anni, indaga la studiosa Atsuko Hida.
“La povertà in Giappone non si vede. Non ci sono bambini mal vestiti, tanto che a prima vista non si distingue chi è povero da chi non lo è”, sottolinea l’autrice di un saggio recente, intitolato La povertà delle donne e dei bambini.
“Intorno a me nessuno è povero: questo è quello che pensano tutti i giapponesi, perché la povertà è una vergogna e quindi viene nascosta. In questo modo si crea anche una povertà relazionale che porta all’isolamento”, aggiunge Hida, le cui opere sono corredate da numerosi esempi.
“Ho incontrato la povertà nel 2002, una decina d’anni dopo la fine della bolla finanziaria e immobiliare. Una madre cucinava per i suoi bambini, a tutti i pasti, solo fagioli di soia, perché erano il prodotto più economico disponibile al supermercato”, a partire da 20 yen (meno di 15 centesimi di euro) per 200 grammi. “Là ho capito cos’era la povertà nascosta”, racconta Hida.
Questa povertà può avere conseguenze disastrose. “Di recente una madre ha ucciso la figlia quando ha scoperto che entrambe sarebbero state sfrattate dalla loro casa popolare alla periferia di Tokyo. Come avrebbe fatto a mantenere la figlia senza un alloggio? La donna ha preferito risparmiare questa sofferenza alla ragazza, studente di liceo che sembrava felice e non avere problemi: aveva anche uno smartphone, che per i giovani è un segno esteriore di normalità. La donna non aveva chiesto aiuto a nessuno prima di compiere il suo gesto”.
Sembra davvero lontano il Giappone che per mezzo secolo si è vantato di ospitare cento milioni di persone della classe media
In Giappone la disuguaglianza di reddito e la povertà relativa tra la popolazione attiva sono cresciute costantemente negli ultimi dieci anni, “fino a raggiungere livelli superiori alla media dei paesi dell’Ocse”, come confermano i dati dell’istituzione internazionale.
Secondo il ministero degli affari sociali, in Giappone il tasso di povertà relativa (cioè la percentuale di persone sotto la soglia di povertà, stabilita in rapporto al livello economico medio di vita del paese) è salito al 16,1 per cento nel 2012, contro l’11 per cento medio dei paesi dell’Ocse.
Sembra davvero lontano il Giappone che per mezzo secolo si è vantato di ospitare “cento milioni di persone della classe media”, cioè la quasi totalità della popolazione.
“Questo sviluppo si spiega in parte con il dualismo del mercato del lavoro, con una fetta crescente di lavoratori non in regola e meno retribuiti”, precisa Hida.
Madri lasciate sole
Le donne e i bambini sono i più vulnerabili. Secondo lo studio del ministero il tasso di povertà relativa delle famiglie monogenitoriali ammonta al 54 per cento, contro il 12 per cento delle famiglie con entrambi i genitori.
“In caso di divorzio una donna che viveva grazie allo stipendio del marito si ritrova improvvisamente senza risorse e tende a escludersi dalla cerchia della mama tomo (le mamme che fanno gruppo all’interno di una scuola) perché non vuole confessare di essere rimasta sola”, simbolo di fallimento in Giappone.
“Le mamme single (circa un milione) incontrano spesso grandi difficoltà a lavorare a tempo pieno, perché un’attività simile è incompatibile con gli impegni di madre. Allo stesso tempo il salario di un lavoro part-time non è sufficiente”.
“I politici sono a conoscenza del problema della povertà, ma non si attivano per combatterla. Per esempio una madre single riceve un sussidio mensile di circa 42mila yen (336 euro) per il primo figlio, ma se ha un secondo figlio il supplemento ammonta soltanto a cinquemila yen (40 euro) e a tremila yen per il terzo. Non ha senso”.
“Fino a quando non risolveremo il problema della povertà non ci sarà soluzione alla denatalità, perché molte coppie che intravedono il rischio di cadere nella povertà non fanno figli, o comunque non più di uno”, insiste Hida.
“Il Giappone è un paese che non offre una seconda possibilità a quelli che cadono. Un tempo esistevano legami di comunità e una solidarietà che spingeva la gente a invitare alla propria tavola i bambini dei vicini. Ora non si usa più. Certo, esistono molte ong, ma non bastano. Il problema non può essere risolto con la beneficenza”, conclude la studiosa.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it