Ad aprile l’assemblea costituente della Libia, riunita in Oman, ha finalmente concluso la stesura della costituzione, malgrado le marce indietro e il caos dietro le quinte, e nonostante il fatto che alcuni suoi componenti abbiano boicottato gli incontri perché, come hanno spiegato, “l’assemblea costituente non ha il diritto né l’autorità di modificare in alcun modo il quorum dato che le modifiche spettano all’autorità legislativa”.
A un’attenta lettura si notano molti difetti, a partire dalla struttura piena di zone grigie che lasciano spazio a diverse interpretazioni o alla prosa mediocre, inferiore a qualsiasi standard minimo di qualità. Ma tutto questo passa in secondo piano quando si legge l’articolo 8:
L’islam è la religione di stato e la legge islamica (sharia) è la fonte della legislazione in accordo con le dottrine e la giurisprudenza islamica, senza opporsi al parere di una certa giurisprudenza islamica in alcune questioni discrezionali, e con le disposizioni della costituzione costruita in armonia con queste.
In altre parole: questa non è una vera costituzione, sono delle semplici linee guida soggette all’interpretazione di figure religiose.
L’articolo 57, relativo ai diritti delle donne, comincia così: “Le donne sono sorelle degli uomini”. Il resto dell’articolo non aggiunge granché a questa apertura a effetto.
Il 23 ottobre 2011 il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) aveva annunciato la liberazione della Libia dopo otto mesi di guerra. Era stato un giorno importante nella nostra storia. Un paese finalmente libero che per la prima volta poteva sognare uno stato basato sulla democrazia e la libertà. In quell’occasione Mustafa Abdel Jalil, leader del Cnt, aveva dichiarato: “In quanto nazione musulmana, abbiamo assunto la sharia islamica come fonte della legislazione. Perciò qualsiasi norma che contraddica i princìpi dell’islam è annullata per legge, comprese le vecchie norme che vietavano a un uomo di avere più di una moglie. Ciascuno libico può avere quattro mogli”.
Sebbene le donne abbiano continuato a fare pressioni per ottenere ciò che spetta loro di diritto, negli anni successivi l’atmosfera non è stata delle migliori per tutti i libici, ma noi almeno siamo potuti uscire a manifestare contro le milizie, contro la teocrazia. Io andavo a tutte le manifestazioni, a prescindere dalla causa. La mia causa era che tutti avevano il diritto di esprimere la loro opinione. Mi piaceva scattare foto e immortalare quei momenti. È durata fino al 2014, quando gli scontri a Tripoli hanno innescato una guerra civile totale e il paese si è diviso in due fazioni, due governi, due eserciti. Da allora niente è stato più lo stesso, ci hanno rubato di nuovo la piazza dei Martiri.
Mi ricordo che nel 2013 un gruppo di donne coraggiose organizzò una manifestazione a Tripoli per chiedere diritti e protestare contro la violenza e il sessismo della società. È stato il primo e ultimo tentativo di questo genere in Libia. Conosco le tre organizzatrici della manifestazione: la mia docente di storia dell’arte Aicha Almagrabi, l’attivista Rouwaida Ali e l’avvocata Hanan Al Newaisery.
Hanno fondato un’organizzazione per difendere i diritti delle donne, e tutte e tre hanno dovuto lasciare il paese nel 2014, dopo aver ricevuto minacce di morte, e subìto tentativi di rapimento e molestie. Adesso vivono in Francia, Svezia e Tunisia.
Non credo che una costituzione così timida cambierà la realtà in cui vivono le donne.
Questo diario fa parte di una serie di articoli scritti da Khalifa Abo Khraisse per Internazionale.
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