“I farmaci hanno prezzi così alti che molte persone, semplicemente, non potranno più permetterseli”, aveva scritto un importante oncologo in un editoriale apparso sul Washington Post. Era il 2004. Più di dieci anni dopo, il costo dei farmaci negli Stati Uniti sta ancora crescendo. L’ultimo caso è stato scatenato dal prezzo dell’EpiPen della Mylan, un autoiniettore per il trattamento dello shock anafilattico, cresciuto di circa il 600 per cento dal 2007. Eppure, le case farmaceutiche continuano a far pagare negli Stati Uniti dei prezzi esorbitanti per i loro prodotti. Ma perché?
La risposta più semplice è che possono farlo. I governi europei controllano i prezzi in vari modi: il Regno Unito possiede uno dei sistemi più severi, e può rifiutarsi di pagare per delle medicine che non raggiungono determinati standard di efficacia rispetto al prezzo. Ma negli Stati Uniti le aziende fissano il prezzo ufficiale che preferiscono. Gli assicuratori e le amministrazioni pubbliche possono poi abbassare tale prezzo usando dei metodi che variano da un tipo di paziente all’altro (come buona parte del sistema sanitario statunitense, questo sistema è difficile da comprendere, per la gioia delle aziende che ne traggono beneficio).
I clienti privati, soprattuto i datori di lavoro, assumono delle terze parti per negoziare degli sconti. Medicaid, il programma pubblico di assistenza sanitaria per le persone povere, riceve uno sconto automatico. Ma il principale cliente delle case farmaceutiche è Medicare, il sistema di assicurazione sanitaria gestito dal governo per le persone di oltre 65 anni e per chi ha malattie specifiche, che nel 2014 ha speso 112 miliardi in farmaci per gli anziani.
Regole insensate
Invece di abbassare i prezzi, i regolamenti relativi a Medicare contribuiscono ad alzarli. Medicare infatti premia i medici che prescrivono costosi farmaci endovenosi, che per esempio possono rappresentare fino al 30 per cento delle entrate di un oncologo. Le regole di Medicare relative a pastiglie, inalatori e così via sono altrettante insensate.
Inoltre Medicare non può negoziare direttamente con le case farmaceutiche. A farlo sono quindi le assicurazioni private, alle quali però lo stato lega le mani, per esempio imponendogli di pagare per sei ampie categorie di farmaci, senza eccezioni. La cosa va a vantaggio delle aziende farmaceutiche. Il loro principale cliente deve comprare i loro prodotti ma non può negoziarne il prezzo. Loro si difendono sostenendo che prezzi così alti sostengono l’innovazione e la ricerca, non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo. Ma non è chiaro se per sostenere la ricerca è necessario che i profitti delle aziende siano tanto alti.
Allo stato attuale, è improbabile che il sistema cambi in maniera sostanziale. Hillary Clinton vuole che il governo negozi direttamente i prezzi dei farmaci per conto di Medicare. E anche a Donald Trump l’idea non dispiace. Ma la cosa sarebbe efficace solo se il governo potesse anche rifiutarsi di dover pagare per alcuni farmaci, e nessuno dei due candidati suggerisce niente del genere, per paura che emerga questione dei cosiddetti death panel governativi (espressione risalente al 2009 che accusa il governo di discriminare l’accesso ai farmaci salvavita). Anche il Regno Unito ha un problema al riguardo: quando le autorità sanitarie hanno respinto dei farmaci antitumorali, alcuni pazienti infuriati hanno spinto il governo a creare un fondo speciale che pagasse simili cure.
In ogni caso, le aziende farmaceutiche ricorrono a ogni mezzo per evitare qualunque forma di controllo dei prezzi. Nell’ultimo decennio hanno donato 97 milioni di dollari a dei candidati al congresso. I democratici, che in teoria dovrebbero essere a favore di prezzi più bassi, non sono molto più affidabili dei repubblicani. In tre importanti stati pieni di democratici – New Jersey, California e Massachusetts – le principali aziende sono case farmaceutiche. Non stupisce che le polemiche sui prezzi, che hanno colpito il valore delle azioni, non abbiano toccato i loro profitti.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo di C.H. è uscito sul blog The Economist explains del settimanale britannico The Economist
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