In Iraq prosegue l’offensiva su Mosul, la città del nord del paese sotto il controllo del gruppo Stato islamico (Is) dal giugno del 2014. Le operazioni militari sono cominciate il 17 ottobre e il 1 novembre hanno raggiunto un punto di svolta con l’ingresso delle truppe irachene in città, più precisamente nel quartiere di Judaidat al Mufti, nella parte sudest, sulla riva sinistra del Tigri, il fiume che taglia in due Mosul. Due giorni dopo, il 3 novembre, il leader dell’Is, Abu Bakr al Baghdadi, ha rotto un silenzio che durava da circa un anno esortando i suoi uomini – che secondo le stime sono circa cinquemila – a non ritirarsi e a resistere all’arrivo delle truppe irachene.

Chi partecipa all’offensiva
Alle operazioni militari partecipa un gruppo eterogeneo di cinquantamila combattenti divisi su tre fronti per minimizzare il rischio di frizioni tra le varie milizie. Da una parte, le forze antiterrorismo e d’intervento rapido, due unità di élite delle forze armate irachene, combattono al fianco dell’esercito di Baghdad, della polizia locale e federale, e dei combattenti curdi peshmerga.

Inoltre ci sono le forze di Mobilitazione popolare (Hashd al shaabi), le unità paramilitari sostenute dall’Iran, formate in gran parte da combattenti sciiti. Infine la coalizione internazionale contro l’Is, guidata dagli Stati Uniti, che sostiene le operazioni con i bombardamenti aerei e di artiglieria. Il governo iracheno ha invece rifiutato l’aiuto della Turchia, che comunque ha inviato un convoglio di trenta veicoli vicino al confine con l’Iraq. Ankara ha fatto più volte sapere di voler partecipare e ha dei soldati di stanza a Bashiqa, una base militare poco a nord di Mosul.

Le forze che partecipano ai combattimenti sono divise su tre fronti e hanno attaccato la città da nord, da est e da sud, liberando decine di villaggi, tra cui alcuni a maggioranza cristiana. Gli abitanti di Mosul e della regione circostante sono in maggioranza sunniti, ma ci sono anche esponenti delle minoranze sciita, cristiana e yazida. Il 29 ottobre le forze di Mobilitazione popolare sono entrate in azione anche sul fronte ovest, attaccando la città di Tal Afar per interrompere le linee di approvvigionamento dell’Is che collegano Mosul con il territorio siriano.

L’avanzata delle truppe irachene sul villaggio di Ali Rash


Le vittime
Nella prima settimana dell’offensiva le Nazioni Unite hanno fatto sapere che i jihadisti hanno ucciso 250 persone nei dintorni di Mosul. Il 1 novembre i cadaveri di altri quaranta ex soldati sono stati gettati nel Tigri. Sempre l’Onu ha denunciato il rapimento di ottomila famiglie, che presumibilmente l’Is intende usare come scudi umani. Dall’altro lato, un generale statunitense ha annunciato la morte di almeno ottocento jihadisti nei primi dieci giorni dell’operazione. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, più di 17.900 persone hanno dovuto lasciare le loro case dall’inizio dei combattimenti, e si stima che il loro numero aumenterà con l’intensificarsi dei combattimenti a Mosul, che conta 1,5 milioni di abitanti.

L’importanza di Mosul
Finora Mosul è stata la roccaforte dei jihadisti dell’Is in Iraq. Proprio dalla moschea grande di questa città due anni e mezzo fa Abu Bakr al Baghdadi proclamò la nascita del califfato islamico. In confronto a Raqqa, in Siria, Mosul è più importante per posizione strategica, dimensioni e importanza culturale. Inoltre, se perderà Mosul, l’Is perderà un’importante fonte di guadagni perché non potrà tassare i suoi abitanti né potrà attingere alle ricchezze petrolifere della zona.

Ma Mosul rappresenta una posta in gioco che va oltre la caduta dell’Is, scrive l’Economist. Chi domina la città domina tutta la regione circostante. Le potenze regionali vedono Mosul non tanto come un terreno di conquista, ma come una città da non far cadere in mano ai propri nemici. I turchi non vogliono veder espandere l’influenza dell’Iran, gli arabi quella della Turchia. Inoltre gli iracheni arabi e curdi la considerano un punto cruciale per il controllo dell’Iraq settentrionale.

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