Da due anni nello Yemen è in corso una guerra tra le forze armate lealiste, che sostengono il presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, e i ribelli houthi.

Gli houthi sono un gruppo armato sciita nato nel 1992. Nel 2014 il movimento ha organizzato delle manifestazioni contro il governo, accusandolo di corruzione e di avere posizioni troppo filostatunitensi. Il governo yemenita ha risposto arrestando 800 persone legate al gruppo sciita. Da quel momento tensioni e violenze tra governo e ribelli sono aumentate, finché gli houthi hanno preso il controllo della capitale Sanaa e spodestato il presidente Hadi.

Hadi si rifugiò a Riyadh, la capitale dell’Arabia Saudita, ottenendo l’intervento di una coalizione internazionale. Gli houthi rimisero al potere in Yemen l’ex presidente Ali Abdullah Saleh.

Il 26 marzo 2015 i paesi del golfo (eccetto l’Oman), Egitto, Giordania, Marocco e Sudan – guidati dall’Arabia Saudita in un’operazione chiamata “tempesta decisiva” – cominciarono i bombardamenti aerei sullo Yemen per fermare l’avanzata degli houthi, appoggiati dall’Iran.

Due anni dopo essere stato cacciato dalla capitale, il presidente Hadi è tornato nello Yemen, scegliendo Aden come capitale del governo riconosciuto a livello internazionale.

Secondo l’Onu, due anni di combattimenti hanno causato 7.700 morti, 42.500 feriti e più di tre milioni di sfollati. Inoltre il paese, che è il più povero della penisola arabica, è anche minacciato da “un grave rischio di carestia”, afferma un rapporto delle Nazioni Unite. Circa 7,3 milioni di yemeniti hanno bisogno di un urgente aiuto alimentare e 432mila bambini soffrono di malnutrizione grave.

Con i bombardamenti nello Yemen, l’Arabia Saudita cerca di contrastare l’influenza dell’Iran, suo rivale regionale, accusato di sostenere i ribelli. L’intervento degli Stati Uniti potrebbe essere la chiave per dare una svolta al conflitto, dato che la nuova amministrazione di Donald Trump sembra più disposta rispetto a quella di Barack Obama a un intervento militare a favore dell’Arabia Saudita.

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