Il 18 settembre i russi votano per rinnovare il parlamento, la duma. Dopo le elezioni del 2011, vinte da Russia unita, le denunce di brogli e una diffusa insofferenza – specialmente tra le classi medie urbane – nei confronti di Putin (allora nella sua fase transitoria di primo ministro) fecero scendere in piazza decine di migliaia di persone. Quella grande ondata di mobilitazioni, che andò in scena tra il dicembre del 2011 e il luglio del 2013, prese il nome della piazza che fu il fulcro delle manifestazioni, ploščad Bolotnaja, a pochi passi dal Cremlino.
A protestare furono tutte le anime dell’opposizione: i progressisti, i liberali, la sinistra filocomunista, i nazionalisti, e tanti cittadini senza connotazioni ideologiche precise. Per un momento sembrò che questa esplosione di attivismo politico potesse davvero influire sulle dinamiche del potere russo. In realtà non è andata così.
Da allora molte cose sono cambiate, nel paese e fuori: c’è stata la crisi ucraina e c’è il conflitto in Siria. La Crimea è stata annessa alla Russia. Il prezzo del petrolio è crollato. E Putin è tornato al Cremlino. Tutti fattori che hanno trasformato il panorama politico ed economico russo.
Eppure, l’attenzione concentrata sui nodi geopolitici che riguardano Mosca – e che sono di enorme rilevanza, primo tra tutti l’intricata situazione in Siria – ha fatto spesso passare inosservate le conseguenze di questi mutamenti sulla pancia del paese. Quello che è successo nel mondo dell’associazionismo, nella scuola, nelle fabbriche, nelle province lontane dalla ricchezza di Mosca, non è stato raccontato con l’attenzione che meritava.
Per cercare di scoprire cosa si muove oggi in Russia oltre i confini del potere e della grande politica, ho parlato con Aleksandr Bikbov, sociologo, vicedirettore del Centro per la filosofia contemporanea e le scienze sociali dell’Università statale di Mosca, tra i promotori della rivista Logos, e attento osservatore dei movimenti di protesta degli ultimi anni. Innanzi tutto è importante sapere cosa ne è stato della generazione di Bolotnaja e se è lecito aspettarsi una nuova ondata di mobilitazioni all’indomani del voto del 18 settembre.
“In questi anni l’ambiente sociale e politico è cambiato profondamente per molti motivi, ma soprattutto per una pressione diretta esercitata dal governo, una pressione che non è solo poliziesca, ma anche economica, e piuttosto sofisticata nelle forme, cosa che segna una netta rottura rispetto ai tempi dell’Unione Sovietica. Così lo slogan che cinque anni fa aveva funzionato bene – ‘Votate per chiunque tranne che per Putin e Russia unita’ – difficilmente questa volta farà breccia tra gli elettori, nonostante gli sforzi di quella parte dei manifestanti del 2011 che non ha mai smobilitato e che è diventata quasi professionalizzata”, dice Bikbov.
“La stretta repressiva ha riguardato diversi soggetti, tra cui le associazioni civiche che erano state cruciali nel lanciare le proteste, a cominciare dalle ong per il monitoraggio delle elezioni, per esempio Golos. Grazie al coinvolgimento diretto dei cittadini questi gruppi avevano denunciato i brogli più evidenti, contribuendo così alla nascita della mobilitazione. Il governo non ha necessariamente chiuso o proibito queste associazioni, ma ha fatto in modo che non potessero più funzionare in modo efficace”.
Le manovre contro l’associazionismo
Usando il grimaldello della legge che vieta alle ong russe di ricevere finanziamenti dall’estero, approvata nel 2012, le autorità hanno di fatto sottratto al mondo dell’associazionismo risorse vitali, finendo per bollare come agenti di potenze straniere decine di ong. In pratica, le organizzazioni si trovano di fronte una scelta molto difficile: possono rinunciare ai finanziamenti stranieri, perdendo così gran parte del loro budget, o possono scegliere di essere indicate come “agenti stranieri”, cosa che gli impedisce di collaborare con le istituzioni pubbliche e di aver accesso ai fondi statali. È esattamente la situazione di Golos, che non può accreditarsi come osservatore alle elezioni.
Secondo i calcoli di Human rights watch, le associazioni finite nella lista nera sono addirittura 138. Nell’elenco c’è di tutto: dai comitati contro la tortura ai gruppi ambientalisti; dalle associazioni femministe ai forum culturali in alcuni casi legati alle minoranze linguistiche del paese; dai centri studi alle organizzazioni che si occupano d’istruzione e scuola. E c’è anche la più importante e prestigiosa associazione russa per i diritti umani, l’ong Memorial, fondata nel 1990.
L’ultima organizzazione a cadere sotto la scure del Cremlino è stato l’istituto demoscopico che per anni ha prodotto le statistiche sociali più attendibili sul paese, il centro Levada, definito “agente straniero” all’inizio di settembre.
“Questa sorta di persecuzione, basata sui pretesti più diversi, non è arrivata fino a cancellare del tutto i diversi elementi del contropotere, ma li ha indeboliti, li ha resi di fatto innocui”, spiega Bikbov. Mentre il potere studiava soluzioni per togliere la terra da sotto i piedi a tutti i potenziali oppositori, la grande manifestazione del 6 maggio 2012 ha segnato anche l’inizio di una fase più brutale della repressione, sfociata nell’arresto di decine di attivisti del movimento.
Più o meno nello stesso periodo sono finiti in carcere diversi elementi di spicco del nazionalismo radicale russo, che per anni erano stati manovrati e usati con l’obiettivo di alimentare ad arte un clima di allarme sociale funzionale a certi obiettivi politici del Cremlino. Raggiunto lo scopo, sono stati scaricati e sbattuti in prigione, come racconta Bikbov.
“È il caso di Aleksandr Belov, leader del gruppo di estrema destra Movimento contro l’immigrazione illegale. O di Maxim Martsinkevič, detto Tesak, mannaia, un neonazista che tra il 2012 e il 2014 è stato lasciato libero di organizzare una serie di ronde e raid contro uomini gay con il pretesto di combattere la pedofilia, sotto le bandiere di un improbabile gruppo chiamato Occupy paedophilia. L’idea era dare alle persone di orientamenti sessuali considerati non tradizionali una punizione esemplare, somministrata direttamente dal popolo, rappresentato dall’avanguardia dei neonazisti. Questa operazione è servita a diffondere il ‘panico morale’ nella società e a stigmatizzare la comunità gay e lesbica, già colpita dalla legge omofoba sulla cosiddetta propaganda omosessuale. Poi, a risultato raggiunto, Martsinkevič è stato arrestato e condannato per istigazione all’odio razziale, violenza e teppismo. L’arresto di Tesak non è legato alla repressione della mobilitazione democratica, ma dimostra che esiste una strategia per strumentalizzare i gruppi di estrema destra”.
Nella stretta contro le opposizioni, in prigione sono finiti infatti soprattutto oppositori di tutt’altra pasta. Come Aleksej Gaskarov, militante antifascista ed economista di formazione, che era riuscito a dar vita a una forma non ufficiale di autogoverno nella sua cittadina, Žukovski, non lontano da Mosca.
Tra i protagonisti della grande manifestazione del 6 maggio del 2012, Gaskarov è stato arrestato un anno dopo con accuse quantomeno pretestuose, e nel 2014 è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere. “È una figura che si è conquistata autorevolezza e rispetto nel movimento”, spiega Bikbov, “e se fosse in libertà potrebbe rappresentare un punto di riferimento per i militanti dell’opposizione. Ma tutte le sue richieste di scarcerazione sono sistematicamente respinte. Il punto è che da un paio d’anni le autorità stanno cercando di isolare e di ridurre al silenzio i protagonisti delle mobilitazioni del 2011, dai liberali alla sinistra fino alle persone comuni senza nessuna affiliazione politica, e di abbassare ogni tensione politica in vista del voto del 18 settembre”.
Resta da capire se questa tattica – che senz’altro il Cremlino avrà perfezionato sull’onda del successo delle proteste di Euromaidan a Kiev – riuscirà a tenere i russi lontani dalle piazze. Del resto, già nel 2011 i militanti di Bolotnaja si interrogavano su cosa sarebbe successo in occasione del voto che sta per svolgersi, senza nascondere un certo ottimismo sulla possibilità di riuscire a tenere alta la tensione e preparare una nuova e più risolutiva fase di proteste. Rispetto ad allora, l’aspettativa di una grande mobilitazione è svanita. Molto probabilmente delle manifestazioni ci saranno, ma è difficile che raggiungano il successo di quelle di cinque anni fa.
“Anche perché”, spiega Bikbov, “le sanzioni per le infrazioni compiute durante i cortei sono diventate molto più cospicue: se prima erano al massimo di duemila rubli, attualmente circa 30 euro, oggi arrivano a 200mila rubli. E non è difficile essere multati: basta non rispettare le regole di comportamento da tenere durante un corteo, mostrare slogan ‘non idonei’, organizzare picchetti solitari non autorizzati, o andare a una manifestazione che ha un numero di partecipanti più alto di quello preventivamente comunicato alla polizia”.
L’opposizione frammentata
Nella società, tuttavia, un argine a Putin e a Russia unita esiste ancora. Ma non ha un’unica anima. Persegue obiettivi diversi, con mezzi e strumenti diversi, e non necessariamente assume le forme della tradizionale opposizione politica, organizzata in partiti che competono per entrare in parlamento. Secondo Bikbov, questa Russia alternativa si può declinare in cinque dimensioni.
“Dovendo fare una classificazione, si può partire dalla vecchia guardia eltsiniana, cioè i liberali cresciuti con le riforme degli anni novanta, tra cui spicca Mikhail Kasianov, primo ministro tra il 2000 e il 2004. Di questo gruppo faceva parte anche Boris Nemtsov, ucciso nel febbraio del 2015. Quel che è certo è che non hanno mai avuto un grande sostegno popolare. Il secondo gruppo è invece quello rappresentato dagli economisti e dai tecnocrati, in qualche modo vicini al neoliberismo”.
Le organizzazioni che si battono per le piccole cause locali sono una forza molto importante
Viene da pensare ad alcune figure che sono rimaste nell’ambito del potere pur mantenendo una certa capacità di critica verso le scelte di Putin: Aleksej Kudrin, per esempio, ministro delle finanze dal 2000 al 2011, e da poco nominato vicecapo del consiglio economico del presidente russo. “In un certo senso è così. Kudrin è stato sempre una figura di ponte tra l’amministrazione, in cui è recentemente rientrato, e l’opposizione, a cui non ha mai aderito”.
Ma secondo Bikbov il vero protagonista di questa opposizione tecnocratica, interessata a costruire competenze economiche e amministrative alternative a quelle del potere, è Aleksej Navalnij. Sì, proprio il blogger anticorruzione che è stato sempre descritto come un leader dagli accenti populisti, con simpatie di destra e nazionaliste e una grande capacità di mobilitare le masse.
C’è forse una contraddizione tra questa immagine e la situazione attuale? “In realtà, inizialmente Navalnij non voleva fare politica. Fino al 2012 ha rifiutato l’etichetta di politico. Al centro del suo lavoro pubblico c’è sempre stata l’elaborazione di una tecnologia per il monitoraggio e il controllo del potere e dell’amministrazione. Da questo punto di vista anche lui fa parte a pieno diritto del gruppo dei tecnocrati d’opposizione: per loro il primato spetta irrimediabilmente all’economia. In fondo il sostegno, anche economico, a Navalnij è sempre arrivato soprattutto da imprenditori e persone attive nel settore privato, tutti concentrati a Mosca”.
Battaglie reali
Liquidato il fronte tecnocratico – che ultimamente in occidente siamo abituati a vedere al governo più che all’opposizione – si passa all’universo dei collettivi di sinistra e dei piccoli sindacati indipendenti, assai diversi dai vecchi sindacati ufficiali sopravvissuti al crollo dell’Unione Sovietica, oggi opportunamente rinnovati, ma sempre molto vicini al Cremlino.
“In Russia il tasso di sindacalizzazione è piuttosto alto: secondo diverse stime è al 40 per cento, cifra dovuta quasi integralmente all’iscrizione automatica alle sigle più grandi prevista dai contratti. Poi, però, ci sono anche i sindacati indipendenti, riuniti nella sigla Ktr, Confederazione del lavoro di Russia. Sono sindacati veri, sono autorganizzati e fanno battaglie reali. Anche se con numeri modesti, sono attivi in alcuni settori tradizionalmente a forte presenza sindacale, come i controllori di volo e gli scaricatori di porto. Negli ultimi anni sono riusciti a far breccia anche nei settori che, nella società postsovietica, sembravano i più refrattari alla sindacalizzazione: la scuola superiore e l’università. Un esempio è la sigla Učitel, il professore. Con soli duemila iscritti nell’intera Russia fanno lotte per il lavoro, campagne sui mezzi d’informazione, azioni pubbliche, battaglie sui contenuti dei programmi dell’istruzione pubblica. Nella stessa scia ci sono state anche mobilitazioni spontanee e non sindacalizzate, come quella dei medici di Mosca del 2014 contro la chiusura degli ospedali nella capitale e i licenziamenti nel settore”.
Il tipo di militanza espressa da movimenti del genere, tuttavia, non ha carattere politico in senso stretto. L’obiettivo non è entrare in parlamento o appoggiare un partito, ma opporsi allo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici. È per questo che alla mobilitazione di Bolotnaja di cinque anni fa i protagonisti del sindacalismo di base hanno partecipato a titolo personale, non come gruppi organizzati.
La quarta anima dell’opposizione è rappresentata dal mondo dell’associazionismo.
“Fino al 2012 le associazioni – dagli enti di beneficenza ai gruppi ambientalisti – hanno sempre negato di avere obiettivi di tipo politico. Ma dopo il giro di vite contro le ong, molte di queste organizzazioni sono state costrette a politicizzarsi. Immaginate un’ong che gestisce degli orfanotrofi, fa crowdfunding e riceve delle donazioni dall’estero, magari dagli Stati Uniti o da Israele, probabilmente da cittadini russi emigrati. A quel punto arrivano la polizia e i servizi segreti, sequestrano i computer, mettono tutto a soqquadro. I dipendenti dell’organizzazione non capiscono il motivo di questa persecuzione. Simili ingiustizie, che si ripetono continuamente, fanno in modo che queste persone si convincano di essere nemiche del potere e si mobilitino, spesso aderendo ai ranghi dell’opposizione tecnocratica di cui abbiamo detto prima”.
L’ultimo gruppo è quello degli attivisti locali che si battono per obiettivi specifici e di respiro apparentemente minore, ma capaci di coinvolgere intere comunità, anche lontano da Mosca e dalle altre metropoli del paese. La più celebre di queste mobilitazioni è stata quella del 2010 per salvare la foresta di Khimki, appena fuori Mosca, una delle proteste popolari che sono arrivate anche sulle pagine dei giornali occidentali.
Ma, aggiunge Bibkov, “c’è stata anche la battaglia per la difesa dei parchi Torfianka e Dubki, a Mosca. Oppure, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, la protesta dei camionisti contro i pedaggi autostradali, o quella, recentissima, dei contadini della regione di Krasnodar, nel sud del paese. Sono cittadini che in molti casi apprezzano Putin, che subiscono una serie di ingiustizie operate dalle istituzioni, dalle grandi imprese, dalla chiesa, sperimentando l’arbitrio, l’arroganza e i soprusi della macchina pubblica. E in questo processo sviluppano uno spirito critico. All’interno di questo gruppo ci sono tensioni tra le fazioni che vogliono intraprendere un vero tragitto politico e quelle che rimangono focalizzate sui piccoli obiettivi concreti.
Per questo i protagonisti dell’opposizione ‘professionalizzata’ non considerano questi militanti dei veri compagni di strada. Li reputano ingenui e inaffidabili. Ma le organizzazioni che si battono per queste piccole cause locali, un parco pubblico o un bosco, sono una forza molto importante, perché si occupano di rivendicazioni sociali ed economiche che sono di norma trascurate dai primi due gruppi dell’opposizione, quelli più politicamente consapevoli.
C’è chi parla della difesa del patrimonio genetico slavo dei russi, della fertilità delle donne russe
Nei prossimi anni sarà questo tipo di militanza a cambiare il paesaggio politico russo. È da qui che verranno le novità più interessanti. In fondo si tratta di sostenitori di Putin che si sentono traditi e si mobilitano: non diventano necessariamente degli oppositori, ma smettono di essere dei ‘credenti’”.
Intanto, però, anche in una fase di difficoltà economica e di tensioni politiche internazionali il Cremlino è riuscito a tenere le briglie del paese. E ci è riuscito grazie a una massiccia mobilitazione patriottica, che negli ultimi quattro anni è stata usata per rinsaldare il rapporto tra i cittadini e il potere e per far passare in secondo piano alcuni problemi concreti: il declino della qualità dei servizi, per esempio la sanità; le pensioni troppo basse; la diminuzione del potere d’acquisto dei salari.
La nuova identità russa
Essenziale per innescare e alimentare questa esplosione di nazionalismo è stata la creazione di una nuova idea nazionale, che è forse uno dei principali e più solidi conseguimenti di Putin. Dopo il 1991 la necessità di creare un’identità intorno a cui costruire il consenso sociale nella Russia postsovietica è stata una delle preoccupazioni di tutti gli inquilini del Cremlino.
“La retorica degli ultimi anni di Boris Eltsin”, dice Bikbov, “puntava a mettere in risalto i valori positivi del paese, cercando di far passare l’immagine di una nazione piena di problemi ma avviata nella giusta direzione grazie alla stabilità politica e al consenso sociale. La parola d’ordine era modernizzazione”.
Argomenti poco convincenti per la maggioranza dei russi, che negli anni novanta si sono trovati a fare i conti con le conseguenze del crollo del rublo del 1998, e hanno assistito al dominio sfacciato e incontrastato degli oligarchi e alle feroci lotte di potere in occasione della rielezione di Eltsin al Cremlino nel 1996. La situazione si è ribaltata completamente nella seconda parte degli anni duemila, quando si è cominciato a mettere al centro del discorso il territorio.
In questa fase la propaganda russa non fa più leva sugli aspetti positivi del paese, ma agisce in negativo
“Questa tendenza è stata sviluppata innanzitutto dalla chiesa, che ha ripreso la retorica stalinista della Russia accerchiata dai nemici esterni e l’ha reinterpretata in una dimensione religiosa e morale”, afferma Bikbov. “Secondo questa visione oggi la Russia ortodossa è circondata da nuovi nemici, che sono i musulmani, i cattolici, i protestanti e soprattutto l’occidente decadente e scristianizzato. Se i valori della fede ortodossa crollano, anche la Russia cessa di esistere. Poco a poco quest’idea ha cominciato a circolare negli ambienti politici e a far sentire il suo peso all’interno delle strutture dello stato”.
Uno dei primi sintomi dell’affermazione di un simile discorso è stata la crisi con l’Estonia scoppiata nell’agosto del 2007, quando Tallinn decise di spostare dal centro della città la statua in onore dei soldati dell’Armata rossa. Allora il ministro degli esteri di Mosca disse che si trattava di un attacco non solo allo stato, ma anche alla civiltà russa. Nello stesso periodo, il Cremlino ha creato la fondazione Russky Mir per diffondere il suo soft power attraverso la cultura russa, prima in alcuni paesi ex sovietici poi in altri stati europei.
“La cosa più interessante è che in questa fase la propaganda russa non fa più leva sugli aspetti positivi del paese, ma agisce in negativo. La Russia è contro: contro la decadenza degli occidentali, la corruzione dei loro costumi, le loro istituzioni deboli, la loro russofobia. È in questo modo che si crea una comunità coesa e nuovamente orgogliosa del suo ruolo e della sua missione storica”.
La polemica ottocentesca tra slavofili o occidentalisti sembra dietro l’angolo.
Il capo del territorio
In questo clima culturale il vero merito di Putin è di essersi accreditato come il difensore del territorio russo.
“Il presidente può anche essere criticato per la gestione della politica economica o sociale, ma è il leader che difende il territorio”, sottolinea Bikbov. “Questa difesa prende diverse forme: è l’allargamento della sovranità sulla Crimea, il sogno del ritorno alla grandezza dell’Urss, la rinnovata capacità di intervenire militarmente nelle grandi crisi internazionali, vedi la Siria, e soprattutto la protezione dei confini nazionali dagli immigrati, quasi sempre cittadini delle ex repubbliche sovietiche, principalmente tagichi, uzbechi o kirghizi”.
Un’apparente incongruenza, considerato che da una parte si cavalca la nostalgia per la maestosità dell’impero sovietico, dall’altra si ha la fobia delle popolazioni che ne facevano parte. “Certo, infatti quest’ultimo aspetto, più di Putin, che sull’argomento è piuttosto moderato, lo cavalcano politici su posizioni decisamente nazionaliste, presenti soprattutto nei ministeri della difesa, dell’interno e della giustizia”.
Comunque, dopo qualche anno di rodaggio, la macchina della propaganda nazionalista ha cominciato a girare a pieno regime quando sono scoppiate le proteste del 2011, e ha ulteriormente accelerato con la crisi ucraina, l’annessione della Crimea e il conflitto in Donbass, nel 2014.
“In questa fase il discorso pubblico si è spostato nettamente a destra, recuperando slogan e temi praticamente fascisti: per esempio i miti dell’eurasismo del filosofo Aleksandr Dugin, che fino pochi anni prima negli ambienti di governo era sempre stato considerato un estremista. Ebbene, tra il 2012 e il 2014 le sue parole d’ordine si ritrovano in bocca a ministri, politici e alti funzionari. Si parla apertamente della difesa del patrimonio genetico slavo dei russi, dell’importanza della fertilità delle donne russe. E sui giornali, in tv, sui social media è propagandata l’idea del ‘noi contro loro’, la Russia contro l’occidente. Secondo questa visione, dietro all’opposizione e alle proteste c’è sempre la mano dell’occidente, degli statunitensi”.
Così si scredita ogni tipo di dissidenza: chi critica Putin è un nemico interno, una quinta colonna degli Stati Uniti e dell’Europa. E si rafforza anche l’idea delle due Russie contrapposte: quella di Putin e quella contro Putin.
“È una specie di spaccatura ontologica, rivendicata con un certo snobismo sociale anche dai mezzi d’informazione critici verso il Cremlino e dagli stessi intellettuali democratici, che si autorappresentano come separati e diversi rispetto al resto dei russi”, spiega Bikbov. “In questa immagine del paese, da una parte ci sono i cittadini istruiti, liberali, filoccidentali, impiegati soprattutto nel settore privato e nelle professioni intellettuali; dall’altra c’è la gente di provincia, i nostalgici, i ceti più poveri e meno istruiti, cresciuti con il mito dell’Urss, con il sacro rispetto del potere in quanto tale”.
Smettere di copiare l’Europa e gli Stati Uniti
Per anni questa enorme fetta della popolazione russa non ha avuto voce. Tornando a parlare il linguaggio dell’orgoglio nazionale, della grandezza della Russia, definendo il crollo dell’Urss “la più grande catastrofe geopolitica del novecento”, Putin le ha restituito la parola, la dignità e un posto in un mondo che era diventato astruso e incomprensibile. È con lui al Cremlino che la Russia ha cambiato radicalmente il modo di rapportarsi all’occidente: dopo aver inseguito il modello occidentale per buona parte degli anni ottanta e novanta, le élite del paese hanno deciso, alla metà degli anni duemila, che non bisognava più copiare l’Europa e gli Stati Uniti.
In questo riassestamento, un ruolo molto importante l’hanno avuto alcuni ex dissidenti e attivisti democratici e di sinistra, che a un certo punto si sono spostati nel campo tradizionalista. Per esempio Andrei Issaev, che negli anni ottanta era stato un militante anarchico per poi ritrovarsi tra i fondatori del partito Russia unita, in cui milita ancora; o Vitalij Milonov, che fu assistente di Galina Starovoitova, deputata democratica uccisa nel 1998, e oggi è un fondamentalista antigay; o ancora Elena Mizulina, un tempo femminista del partito liberale Jabloko, diventata tra le principali promotrici in parlamento della legislazione antigay.
Se davvero esiste, il putinismo ha l’aspetto di una miscela di elementi della storia sovietica e del passato zarista
Se si guarda alle vicende della Russia degli ultimi quindici anni da quest’angolazione, è difficile stupirsi del successo di Putin. È stato lui a dire: noi non siamo un paese di secondo piano, siamo allo stesso livello delle altre grandi nazioni occidentali, non siamo inferiori a nessuno. Questo discorso ha avuto un effetto liberatorio su molti russi che avevano vissuto la transizione da sconfitti della storia.
Il capitale politico accumulato così dal presidente è stato investito per approvare leggi repressive, per guidare il paese con metodi autoritari e soprattutto per rimanere a galla anche in periodi di difficoltà economiche. Sta proprio in questa ricostruzione dell’identità nazionale il vero motivo del successo di Putin.
“È esattamente per questo che non condivido i tentativi di demonizzare Putin e di presentarlo come un autocrate unicamente interessato a calpestare i diritti umani. In realtà il suo regime è nella scia del modello del capitalismo nazionale ottocentesco”.
E la sua ideologia? Se davvero esiste, il putinismo ha l’aspetto di una miscela di elementi della storia sovietica e del passato zarista, del tradizionalismo ortodosso, di un autoritarismo più moderno e tecnologico, di parole d’ordine e slogan presi dal mondo capitalista e globalizzato, e di ricette economiche di tipo mercantilista.
“Sì, però l’idea portante rimane il territorio”, precisa Bikbov. “La difesa della produzione nazionale, il protezionismo economico, la tutela della sua forza lavoro, l’idea della famiglia che procrea e mette al mondo la forza lavoro che manda avanti il paese, il rifiuto degli stili di vita gay. Tutto è in funzione della difesa del territorio. Intanto le riforme neoliberiste del settore pubblico vanno avanti come nel resto dei paesi europei ”.
Spostamento a destra
Con il tempo questa mobilitazione patriottica, soprattutto sotto forma di lotta all’immigrazione, con un meccanismo apparentemente contorto, ha fatto breccia anche nelle classi medie urbane.
“Il vero motivo scatenante sono state le tasse”, spiega Bikbov. “Nelle manifestazioni del 2011-2012 uno degli slogan più comuni in piazza era: noi paghiamo le tasse e noi vogliamo controllare quello che fa il governo. In sostanza lo stato aveva cominciato seriamente a raccogliere le tasse – cosa che aveva trascurato di fare per buona parte dello scorso decennio, quando a riempire le casse pubbliche ci pensavano i soldi del gas e del petrolio – e i piccoli imprenditori, i piccoli proprietari, gli impiegati del settore pubblico hanno cominciato a chiedere un uso trasparente dei fondi. Gran parte del successo di Navalnij è legato a questa battaglia.
Poi, però, questi slogan e queste rivendicazioni sono stati fatti propri dalla propaganda del governo, che ne ha stravolto il significato, indirizzando parte della protesta in senso nazionalista, in particolare contro gli immigrati, secondo un canovaccio che in occidente è piuttosto comune: ‘È scandaloso! Noi paghiamo e lo stato spende i soldi per i servizi agli immigrati!’. E la stessa logica che i liberalnazionalisti usano con la Cecenia e i suoi emigrati: nascondono i loro attacchi e le loro critiche, figli di pregiudizi razzisti e xenofobi, dietro motivazioni economiche. Insomma, quando hanno dovuto cominciare a pagare, alcuni vecchi liberal si sono spostati destra”.
La strategia politica costruita intorno alla mobilitazione permanente della cittadinanza in senso nazionalista presenta tuttavia diversi rischi: non può durare all’infinito, perché prima o poi i problemi concreti si fanno sentire, e ha bisogno di continui conflitti e tensioni per essere alimentata. Servirà quindi un’altra Crimea o un altro Donbass per tenere Putin e il suo entourage al potere?
“Non è detto. Ormai il meccanismo è stato messo in moto. Il vero effetto liberatorio dal punto di vista psicanalitico l’ha avuto la conquista della Crimea. Credo che se anche ci fosse un nuovo allargamento territoriale, questa volta sarebbe accolto dall’opinione pubblica con maggiore freddezza”, risponde Bikbov.
Il peso della propaganda
Tra gli strumenti usati per alimentare quest’ondata di nazionalismo ci sono ovviamente i mezzi d’informazione, soprattutto le tv, la vera finestra sul mondo per milioni di russi.
“Un fattore essenziale dietro alla capacità di mobilitazione popolare avuta dalla tv in questi ultimi anni, è stata la cooptazione nei grandi mezzi d’informazione nazionali di alcuni personaggi su posizioni estremiste, precedentemente marginalizzati e poco influenti. Ci sono poi numerosi giornalisti che hanno fatto carriera spostandosi su posizioni sempre più radicali”, spiega Bikbov.
Sembra l’identikit di Dmitrij Kiselëv, conduttore del programma tv Vesti nedeli (Le notizie della settimana), che durante la crisi ucraina ha rappresentato le posizioni e le ossessioni della Russia più nazionalista e ha fatto da megafono per la propaganda del Cremlino. “Sì, Kiselëv è un buon esempio di questo tipo di professionisti, che in qualche modo giocano con notizie e storie spesso assurde o costruite, sono complottisti e ossessionati da alcuni aspetti secondo loro poco chiari della storia globale. Kiselëv ha avuto il grande merito di capire che nel 2011-2012 il potere aveva bisogno di una contronarrativa da opporre a quella dei manifestanti di Bolotnaja. E su questo ha costruito il suo successo. Ma ci sono altre figure simili, forse anche più estremiste”.
Parallelamente a questa radicalizzazione dei grandi mass media c’è stato un deciso giro di vite sui mezzi d’informazione più o meno liberi. Questa stretta ha preso di mira soprattutto alcuni siti indipendenti, come Gazeta e soprattutto Lenta, e ha portato alla riorganizzazione dell’agenzia di stampa Ria Novosti, che è stata sostituita da due nuove testate: Rossija Segodnija (Russia oggi, guidata dallo stesso Kiselëv) e Sputnik, entrambe dal profilo decisamente più propagandistico.
C’è anche un altro fenomeno interessante da osservare: nell’ultimo mandato di Putin i mezzi d’informazione sono stati fondamentali per propagandare il mito degli altissimi indici di gradimento del presidente, che sono stati usati, anche in occidente, per raccontare un paese compattamente entusiasta del suo leader.
Il presidente è considerato il governante di polso, l’uomo capace di decisioni coraggiose
“In realtà certe percentuali altissime sono il risultato di domande fatte con criteri che favoriscono determinate risposte e spesso non tengono conto degli indecisi”, afferma Bikbov. “Se poi si scorrono i dati sugli indici di gradimento del presidente dal 2000 in poi, ci si accorge che sono sempre piuttosto alti, intorno al 75 per cento, e senza grandi variazioni. Se invece osserviamo le legislative del 2011 – vinte da Russia unita con il 49 per cento dei consensi e un’affluenza alle urne del 60 per cento – si scopre che per il partito del presidente ha votato il 29,3 per cento del totale degli aventi diritto: un cifra rispettabilissima, ma in linea con i risultati elettorali di altri paesi occidentali. Il punto è che bisogna smontare il mito dei russi completamente ossessionati e assoggettati a Putin. Sono montature mediatiche e politiche funzionali all’approvazione di determinati provvedimenti”.
Si tratta, insomma, di giocare con le tecniche demoscopiche per accreditare e alimentare, ovviamente con la complicità di giornali e tv, una narrazione dei fatti – “l’esplosione del consenso filoputiniano in Russia” – che contribuisce a perpetuare l’attuale sistema di potere.
Tuttavia è innegabile che da qualche tempo il leader russo goda della fiducia di buona parte dei russi e della simpatia di una fetta sempre più consistente di occidentali. Il presidente è considerato il governante di polso, l’uomo capace di decisioni coraggiose, l’ultimo baluardo contro l’americanismo, la globalizzazione, il multiculturalismo, la deriva relativista delle società aperte.
E in quanto tale è diventato un modello da seguire tanto per la destra identitaria e tradizionalista quanto per quella parte di sinistra che, con una robusta dose di cinismo e qualche nostalgia per il passato sovietico, rimane fedele al motto “il nemico del mio nemico è mio amico”.
“La prima volta che mi sono reso conto della popolarità di Putin è stato alla metà dello scorso decennio, parlando con alcuni immigrati pachistani, iraniani e iracheni in Francia e in Italia”, ricorda Bikbov, “appena dicevo di essere russo, ricevevo calorosi e sinceri attestati di stima per il presidente. Per loro Putin era l’unico leader capace di opporsi agli Stati Uniti. Il motivo della sua popolarità, insomma, era esclusivamente l’antiamericanismo. Credo che lo stesso valga per una parte degli ambienti intellettuali europei, per esempio in Francia e in Italia. In tutto questo c’è però un macroscopico equivoco: una parte della sinistra considera Putin un leader che fa politiche sociali progressiste. Mi è capitato di sentirmelo dire più volte. È una falsità assoluta”.
“Il regime di Putin sta distruggendo lo stato sociale, esattamente come succede in altri paesi europei”, aggiunge Bikbov. “Ma ha il coraggio di mettere in discussione il potere degli Stati Uniti, ed è questo che conta. In fondo è la stessa dinamica che osserviamo in Russia. Putin assicura la difesa del paese dai nemici esterni e automaticamente è considerato il presidente che garantisce al paese prosperità e giustizia. In realtà, in Russia lo smantellamento dello stato sociale, della sanità, della scuola, è in uno stato molto più avanzato che in Europa, anche perché non ci sono grandi sindacati indipendenti e perché le associazioni di categoria e della società civile non sono ancora sviluppate. Ma di questi aspetti della politica di Putin ovviamente non si parla: né sui mezzi d’informazione di propaganda per il pubblico straniero, come Sputnik e Russia Today, né sui mezzi d’informazione russi”.
Segnali contraddittori dalla scuola e dall’università
Con l’informazione costantemente monitorata, per non dire censurata, la propaganda che funziona a pieno regime, non solo all’interno del paese, e gli spazi di libertà politica sempre più ristretti, c’è da chiedersi che tipo di cittadino uscirà dalle scuole e dagli atenei russi nei prossimi decenni: sarà rassegnato agli abusi di un sistema autoritario o svilupperà gli anticorpi necessari per mettere in discussione il potere e le sue angherie?
“La situazione è complessa. Fammi fare l’esempio del manuale di storia unico che il Cremlino voleva far adottare in tutti i licei del paese. Ebbene, certi punti – per esempio gli anni novanta o lo stalinismo – in effetti erano presentati in modo poco critico e parecchio superficiale, senza nessuna problematizzazione. Ma comunque non era un libro di pura propaganda, c’era la ricerca di un certo equilibrio. In questo senso i segnali che arrivano dalla scuola e dall’università possono essere contraddittori”, dice Bikbov.
“Non esiste una versione univoca dei fatti, e sul modo in cui sono recepiti gli input dei docenti ha grande influenza l’educazione che si riceve in famiglia. Dalla metà degli anni duemila ogni anno conduco una ricerca tra gli studenti del liceo: gli chiedo di rappresentare la società russa con un disegno. Il 25 per cento dei ragazzi include in qualche punto il presidente Putin: magari intento a osservare, proteggere, governare. Ho ripetuto il test all’università, anche in atenei di provincia, e ho osservato gli stessi risultati. Ma c’è anche un’altra grande fetta di studenti capace di rappresentare in modo dissacrante il potere e i suoi simboli, il presidente stesso, per esempio, o l’aquila imperiale. Molto dipende dalle risorse culturali delle famiglie”.
La scuola e l’università sono quindi ancora spazi liberi, dove elaborare idee non necessariamente conformi alla visione del potere?
“In realtà sono soprattutto luoghi di conflitto istituzionalizzato”, risponde Bikbov. “Al liceo in programma ci sono ancora i corsi di educazione civica e di diritti civili, accanto alle lezioni, sempre più importanti, di storia della religione, cioè di cristianesimo ortodosso. Di recente, inoltre, è stata nominata una nuova ministra dell’università, Olga Vasilieva, storica della chiesa di professione e profondamente ortodossa, che sta trasformando il suo dicastero esattamente come ha fatto il suo collega con la delega alla cultura, Vladimir Medinskij: l’istruzione deve servire a formare giovani dai solidi valori tradizionali, obbedienti, leali verso il potere, pronti a rimanere sul territorio, capaci di resistere alle tentazioni della corruzione occidentale. E tutto in funzione dello sviluppo del progetto del capitalismo nazionale russo”.
Inevitabile, quindi, che in futuro la scuola e l’università diventino sempre più spazi di conflitto. Ma è pensabile che possano essere anche incubatori di movimenti di protesta, com’è successo in passato in occidente e in alcuni paesi non sovietici del blocco comunista?
“Molto dipende dai professori”, spiega Bikbov. “E oggi i professori sono soggetti a forti pressioni di tipo economico, mentre gli studenti hanno minimi spazi di autonomia nella transizione tra la famiglia e le istituzioni. Comunque non credo, è difficile che dalle università nascano dei grandi movimenti di protesta. È più probabile che dalla scuola e dagli atenei russi escano giovani imbevuti di nazionalismo, come successe nell’ottocento nella Germania guglielmina. Nei luoghi di socializzazione in Russia, in famiglia, a scuola, all’università lo spazio per lo sviluppo dell’individualità critica è ancora limitato”.
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