A un anno dall’accordo tra Unione europea e Turchia sui migranti stipulato il 18 marzo del 2016, Bruxelles sta facendo di tutto per non rimetterlo in discussione, nonostante abbia provocato una situazione umanitaria disastrosa in Grecia e nei Balcani. La Turchia, invece, minaccia di rivedere i termini dell’accordo. Il 13 marzo – nel pieno di una crisi diplomatica con diversi paesi dell’Unione europea, tra cui i Paesi Bassi e la Germania – il ministro per gli affari europei di Ankara, Ömer Çelik, ha affermato che la Turchia dovrebbe rimettere in discussione la clausola “sul transito via terra” dei migranti.
Tuttavia, con un referendum costituzionale alle porte (16 aprile), la minaccia terroristica e l’instabilità interna, sembra improbabile che Ankara passi dalle minacce ai fatti riaprendo la frontiera con la Siria o spingendo i 2,9 milioni di profughi siriani che vivono sul suo territorio a mettersi in viaggio verso l’Europa.
Da quando l’Unione europea ha concesso alla Turchia tre miliardi di euro per fermare l’arrivo dei migranti sulle coste greche, il numero delle persone che hanno affrontato la traversata dell’Egeo si è ridotto a 1.500 nel gennaio del 2017 (nello stesso periodo del 2016 erano state 70mila). I motivi, come spiega Patrick Kingsley sul New York Times, sono diversi.
In primo luogo la Turchia ha chiuso le frontiere ai profughi siriani: se nel 2015 ai cittadini siriani non serviva il visto per entrare nel paese, ora non è più così. Inoltre il confine tra Siria e Turchia è più controllato che in passato per il timore che gruppi terroristici attivi nella guerra civile siriana possano organizzare attentati oltre il confine. Ankara, infatti, dall’agosto del 2016 è in guerra contro il gruppo Stato islamico in Siria e contro le milizie curdosiriane (Unità di protezione popolare, Ypg), considerate un gruppo terroristico dai turchi.
Secondo l’Unhcr 12.963 persone sono trattenute negli hotspot sulle isole
D’altronde, anche se i profughi dovessero rimettersi in viaggio dalla Turchia verso l’Europa, beneficiando di una maggiore tolleranza del governo turco, troverebbero una situazione completamente diversa rispetto a un anno fa. L’accordo prevedeva infatti che i profughi arrivati in Grecia dalla Turchia dopo il 20 marzo del 2016 fossero rinchiusi negli hotspot sulle isole di Samo, Lesbo e Chio in attesa di essere identificati ed eventualmente rimandati in Turchia. Nell’aprile del 2016 la Grecia ha riformato la legge sull’asilo per permettere la detenzione amministrativa dei migranti irregolari in attesa che la loro domanda d’asilo sia valutata dai funzionari dell’agenzia europea per l’asilo (Easo).
I funzionari europei devono stabilire caso per caso se il richiedente asilo può essere rimandato in Turchia senza correre rischi per la sua incolumità. Secondo i dati della Commissione europea, il numero complessivo di migranti rinviati in Turchia dal 20 marzo è di 1.487 persone. “Le persone rinviate avevano ricevuto decisioni negative in merito alle loro domande di asilo (comprese decisioni negative in secondo grado) oppure avevano ritirato le loro domande di asilo o di protezione internazionale o non avevano presentato domanda di asilo”, è spiegato nella Quinta relazione della Commissione europea del 2 marzo del 2016. Amnesty international in un rapporto ha denunciato che alcuni profughi siriani sarebbero stati respinti alla frontiera nell’ottobre del 2016 senza che gli sia stata data la possibilità di chiedere asilo in Grecia, infrangendo il diritto internazionale sui respingimenti.
Alcune deportazioni dalla Grecia alla Turchia sono state bloccate dai ricorsi alla corte d’appello, che ha bocciato le decisioni dei funzionari dell’Easo valutando che la Turchia non fosse un paese sicuro per rimandare indietro i profughi. Molti migranti, dopo mesi di attesa hanno fatto domanda per essere rimpatriati volontariamente nei loro paesi d’origine. Sono circa settemila le persone che hanno chiesto di aderire al programma di rimpatrio volontario dall’inizio del 2016.
Secondo le autorità greche, oggi in Grecia 14.371 persone sono trattenute negli hotspot sulle isole in condizioni disumane, ben oltre la capienza complessiva dei campi che sarebbe di 7.450 posti. Sulla terraferma circa 50mila persone (soprattutto siriani, afgani e iracheni) vivono da mesi nei campi profughi in attesa che la richiesta d’asilo, di ricollocamento o di ricongiungimento familiare sia esaminata dalle autorità. “In questo contesto dobbiamo considerare che la Commissione europea ha chiesto ai paesi membri di riprendere i trasferimenti verso la Grecia dei profughi che sono riusciti ad arrivare in altri paesi d’Europa in base al regolamento di Dublino. I trasferimenti erano stati sospesi nel 2011 perché il sistema di accoglienza greco era stato giudicato carente dalla stessa Commissione, ma riprenderanno a metà marzo, in una situazione sul campo in Grecia che è folle”, spiega la la giornalista e scrittrice Daniela Padoan dell’associazione Diritti e frontiere.
Dalla Grecia sono state spostati in altri paesi europei solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Per questo molti profughi continuano a mettersi in viaggio lungo la rotta balcanica affidandosi a passeurs e trafficanti. Ma sulla loro strada trovano recinzioni, filo spinato e guardie di frontiera a bloccarli con arresti, minacce e violenze. Nell’ultimo anno 25mila persone hanno percorso questa rotta, affrontando pericoli, difficoltà e umiliazioni. E rischiando la vita. Dal 20 marzo del 2016, almeno 140 persone sono morte sulla rotta balcanica o nella traversata dell’Egeo.
Come pazzi
Reza ha 23 anni, è afgano. È arrivato a Lesbo il 21 marzo del 2016, il giorno dopo che è entrato in vigore l’accordo tra Ankara e Bruxelles. “Sono a Lesbo da quasi un anno”, ha raccontato agli operatori dell’organizzazione umanitaria Human rights watch. “Non ho un documento che mi permetta di lasciare l’isola e non ho soldi per pagare un trafficante. Mi sento uno zero, non ho il controllo della mia vita. Mi sento come un pazzo che vaga senza sapere perché”. Le forti nevicate a gennaio hanno peggiorato la situazione sulle isole.
Mazar Ali ha 23 anni, anche lui è afgano, e a gennaio la tenda in cui viveva è stata distrutta dalla neve. “Abbiamo chiesto una nuova tenda, ma ci sono voluti tre giorni per averne una, quindi abbiamo dormito all’aperto”, racconta. Dilshad, un richiedente asilo curdo iracheno, è arrivato a Lesbo a settembre del 2016. “Da allora vivo in tenda”, racconta. Tre uomini sono morti a Lesbo tra il 24 e il 30 gennaio 2017 per un’intossicazione da monossido di carbonio, emesso dalle stufe improvvisate usate per riscaldarsi. Alla fine del 2016, un’esplosione, molto probabilmente causata da un bombola di gas difettosa, ha ucciso una donna curda e suo nipote di sei anni nell’hotspot di Moria.
A Lesbo il 15 marzo si è svolta un’assemblea a cui hanno partecipato i profughi, i rappresentanti delle principali organizzazioni umanitarie e di volontari attive sulle isole greche. L’assemblea ha inviato una lettera ai leader europei chiedendo di visitare l’hotspot di Moria e di sospendere l’accordo con la Turchia: “Chiediamo ai capi dell’Unione europea di interrompere l’attuazione dell’accordo. Chiediamo la fine delle deportazioni e dei rimpatri, il permesso di lasciare l’isola, più controlli sugli abusi della polizia sui profughi, invece che più controlli alle frontiere, la chiusura del campo di Moria”.
Le persone come merci
Un anno fa, subito dopo l’accordo, l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf) dichiarò che non avrebbe più accettato finanziamenti dall’Unione europea, perché voleva denunciare la disumanità e il cinismo delle politiche europee sull’immigrazione. A un anno di distanza, Msf ha rinnovato la sua denuncia in un rapporto in cui sottolinea le conseguenze delle politiche europee sulla vita e sulla salute di migliaia di persone, in particolare in Grecia e in Serbia.
Il 66 per cento dei profughi assistiti da Msf riporta sintomi di depressione
“I politici europei non vogliono riconoscere che l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia tratta le persone come merci, con conseguenze disastrose”, afferma Aspasia Kakari, portavoce di Medici senza frontiere ad Atene. Sulle isole vivono ancora migliaia di profughi in condizioni disumane. “A gennaio sull’isola di Samo ci sono stati 12 tentativi di suicidio”, continua Kakari. Dopo le denunce delle ong che a gennaio avevano mostrato le tende dentro l’hotspot di Moria, a Lesbo, sommerse dalla neve, sono state migliorate le strutture in cui sono alloggiati i profughi. “Ora vivono in strutture più resistenti al freddo, ma la sostanza non cambia”, afferma Kakari.
“Ci sono persone che aspettano da un anno che la loro richiesta d’asilo sia esaminata: non sanno cosa li aspetta, temono di essere rimandati in Turchia, non possono lavorare, non possono lasciare l’isola, i bambini non vanno a scuola. Tra i profughi ci sono molte vittime di tortura e non hanno nessuna assistenza”, continua Kakari. A Samo almeno 60o persone non hanno accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari di base.
Tra ottobre e dicembre del 2016, il 66 per cento dei profughi assistiti da Msf ha riportato sintomi di depressione, il 45,4 ha fatto registrare sintomi di ansia, il 22,3 sindrome post-traumatica da stress, il 12,4 psicosi. “La maggioranza delle persone che abbiamo ascoltato sono uomini tra i 18 e i 40 anni. Hanno assistito a bombardamenti, arresti e torture. Molti sono in condizioni di vulnerabilità e la loro situazione si è aggravata negli hotspot. Alcune persone si trovano sulle isole da nove mesi e molte hanno cominciato a rifugiarsi nell’alcol, nonostante questo sia contrario alle loro tradizioni religiose”, spiega uno psicologo di Msf che ha lavorato con i profughi a Samo.
Sulle isole sono trattenuti cinquemila bambini, spiega in un rapporto Save the children. “Incidenti e atti di autolesionismo che coinvolgono bambini anche di 9 anni si stanno moltiplicando e le madri scoprono spesso le ferite sulle loro mani quando li aiutano a lavarsi. Alcuni bambini, anche di 12 anni, hanno tentato il suicidio generando anche un meccanismo di emulazione tra i coetanei”, spiega il rapporto. “È inaccettabile che nonostante le gravi conseguenze sulla vita dei bambini, questo accordo sia indicato dall’Europa come un modello da seguire per la cooperazione con altri paesi di transito quali la Libia o l’Egitto”, conclude Save the children.
Nonostante tutto, per la Commissione europea il bilancio dell’accordo con la Turchia è positivo, perché gli arrivi sulle coste greche sono diminuiti, riducendosi a una media di 48 persone al giorno. “La dichiarazione ha prodotto risultati tangibili nonostante il difficile contesto”, è scritto nella quinta relazione della Commissione presentata il 2 marzo a Bruxelles. “È sconcertante che si vantino dei successi sulla riduzione del numero di attraversamenti”, afferma Daniela Padoan dell’associazione Diritti e frontiere. “Questi dati eludono una tragica realtà: nei primi mesi del 2017 ci sono stati più di 500 morti nel Mediterraneo centrale, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Il problema è che la valutazione deve essere complessiva. Se tu blocchi una rotta, le persone tentano la traversata da posti più pericolosi, cioè dalla Libia. Ignorare la cosa è segno di miopia politica o di malafede. Possono anche dire che sono morte solo 70 persone nell’Egeo, ma il conto deve essere complessivo”.
François Crépeau, inviato speciale per i diritti umani dei migranti delle Nazioni Unite, nel maggio del 2016 ha commentato la situazione in Grecia e nei Balcani con una valutazione categorica: “Presentare la situazione attuale come una crisi umanitaria dimostra solo miopia. La vera crisi in Europa risiede nella mancanza di volontà politica, che deriva dalla mancanza di una visione comune su come la migrazione e la mobilità delle persone siano parte del presente e del futuro”.
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