Ho un amico cinese che fa l’analista economico per un grande istituto di ricerca di Hong Kong. Quando il 23 gennaio Donald Trump ha disdetto con una firma la Transpacific partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio tra i paesi affacciati sul Pacifico messo faticosamente in piedi dall’amministrazione Obama, mi sono precipitato a chiedergli se per caso questo non aprisse le porte alla proposta alternativa cinese, la Regional comprehensive economic partnership (Rcep).

Mi ha risposto che il Tpp era già pronto, mentre la Rcep nemmeno si capisce bene cosa sia. Ma non solo: “Il Tpp era un progetto di alto livello, mentre la Rcep”, che secondo lui potrebbe arrivare addirittura tra decenni, “sicuramente non lo sarà”.

“Alto livello”, detto da lui, significa che l’accordo a guida statunitense avrebbe imposto uno standard di libero mercato a tutti, mentre quello cinese – se mai ci sarà – nascerà già con mille eccezioni: “Va bene, eliminiamo tutte le tariffe protezionistiche, tranne qualcuna”.

Un esempio tipico è quello del riso. Altro che mercato come migliore “allocatore delle risorse”, qui vale la regola per cui “il riso è mio e me lo gestisco io”. Quindi il mio amico analista cinese è sicuro che in qualsiasi accordo di libero scambio tra paesi asiatici il riso continuerà a essere protetto.

Il timone cinese
“Ci sono milioni di piccoli coltivatori di riso”, dice, “che non possono competere con le grandi multinazionali. Inoltre, dato che è l’alimento base in Asia orientale, c’è sempre il timore di dipendere troppo dalle importazioni. Per noi cinesi è ovvio. Anche i giapponesi chiedono sempre l’esenzione del commercio di riso da ogni accordo di libero scambio”. E, non a caso, gli agricoltori giapponesi sono sempre stati tra i più fermi oppositori del Tpp.

La settimana scorsa abbiamo assistito a quello che, almeno dal punto di vista simbolico, può essere considerato uno storico cambio di guardia. Nei manuali scolastici i nostri nipoti leggeranno forse che i giorni compresi tra il 17 e il 20 gennaio 2017 segnano l’inizio del “secolo asiatico”, cioè il momento in cui gli Stati Uniti hanno abbandonato il loro ruolo di leader globale e la Cina ne ha preso il testimone.

Martedì 17 gennaio, al World economic forum di Davos, il presidente cinese Xi Jinping ha difeso la globalizzazione e il libero scambio in un discorso che, considerando il tradizionale aplomb asiatico, è parso addirittura appassionato. Ha allargato lo specifico economico a contenuti universali, trasmettendo un’immagine ottimista dell’umanità e dei destini globali. Ha usato metafore tratte soprattutto dalla cultura occidentale, quasi volesse dare un ulteriore segnale d’apertura: Dickens, Alibaba, il vaso di Pandora. Sfido qualsiasi politico nostrano in visita in Cina ad andare al di là del solito Marco Polo.

Xi Jinping ha riconosciuto che la globalizzazione comporta sfide, ma ha anche detto che “ha alimentato la crescita globale” e che deve essere “rinvigorita”. Ha citato l’esempio cinese – 700 milioni di persone tolte alla povertà in quarant’anni – per sostenere che “la storia dell’umanità ci dice che non bisogna temere i problemi”.

Ha inoltre promesso che la Cina è pronta ad accogliere a braccia aperte la gente di altri paesi sul “treno espresso” dello sviluppo cinese (sul treno – sia inteso – cioè non esattamente nella Cina in quanto territorio, dove permangono forti restrizioni alla concessione di visti).

Ipocrisia e apertura
Il 20 gennaio il discorso inaugurale di Donald Trump è apparso al contrario come un film distopico su soggetto di Cormac McCarthy: la “carneficina americana”, la violenza e la droga per le strade, quei “bambini intrappolati nella povertà” e via dicendo. Tutte sciagure dovute a quella globalizzazione che Xi ha invece elogiato. “L’America prima di tutto” strillato ai quattro venti – ecco il messaggio di Trump – e qualcuno si è preso la briga di contare quante volte ha pronunciato la parola “protezione”: sette, per la precisione.

A questo punto, gli osservatori si dividono in due. Ci sono quelli secondo cui la retorica di Xi è pura ipocrisia. La Cina che “si apre al mondo” è la stessa in cui sono state annunciate ulteriori restrizioni all’utilizzo delle reti virtuali private (vpn), lo strumento informatico indispensabile per aggirare il grande firewall che da queste parti rende di fatto internet una intranet. Continuano gli arresti arbitrari contro gli avvocati per i diritti umani e più in generale i sostenitori di una società “democratica” (nel senso occidentale del termine), basata sulla divisione dei poteri e sul pluralismo politico.

L’esempio del riso ‘che sarà sempre protetto’ è limpido: tutti i paesi asiatici vogliono che sia così, al diavolo il libero scambio

E sul piano prettamente economico, le imprese straniere che sbarcano in Cina non godono ancora di una reciprocità di trattamento nel segno del libero mercato, mentre Pechino annuncia nuove misure contro l’esportazione di capitali e il valore dello yuan è determinato politicamente. Alla faccia dell’apertura, della globalizzazione, del libero mercato.

C’è invece chi ha una visione più articolata, consapevole e corretta. Prima di tutto, la Cina è già nella globalizzazione da appunto quarant’anni. Solo che da sempre la interpreta a modo suo. Qui vale più che mai la frase pronunciata da Deng Xiaoping nel 1961, dopo l’immane tragedia del grande balzo in avanti, quando si ritiene che l’industrializzazione forzata voluta da Mao fece morire di fame 30 milioni di persone: “Non importa che il gatto sia nero o bianco, l’importante è che riesca a catturare il topo”.

Deng diceva che il rilancio dell’economia e il risanamento della crisi alimentare (cioè “acchiappare il topo”) erano molto più importanti dell’ideologia (il colore del gatto). Spostiamoci in avanti di quarant’anni ed ecco l’entrata della Cina nell’Organizzazione del commercio mondiale (Wto, 2001), cioè la “globalizzazione” – in realtà cominciata prima, con la delocalizzazione delle fabbriche occidentali oltre la grande muraglia. Ma anche qui l’ideologia del libero mercato (il colore del gatto) non deve avere la meglio sul benessere diffuso (acchiappare il topo).

L’obiezione che si fa di solito in occidente è: “Be’, ma il libero mercato è così, bisogna che tutti ne accettiamo le regole, se non lo si fa e se prendi solo ciò che sta bene, vuol dire che si fa i furbi”. Sì, Pechino sta facendo la furba, ma non necessariamente a suo esclusivo vantaggio.

L’esempio del riso “che sarà sempre protetto” è limpido: tutti i paesi asiatici vogliono che sia così, al diavolo il libero scambio. Non c’è bisogno di invocare la “protezione”, è già così evidente. Anche perché in particolare nei paesi del sudest asiatico che formano la seconda area del continente per la produzione dell’oppio, il cosiddetto triangolo d’oro – Birmania, Thailandia, Vietnam e Laos –, si sa bene che il piccolo contadino non produce più riso per la sussistenza e il mercato spesso si dedica alla coltura del papavero, che per i criteri del libero mercato è perfetta: è facile da coltivare, ha grandi rese e vale tantissimo.

Chissà, forse la futura “globalizzazione asiatica”, con le sue mille eccezioni, sarà più consapevole – meno ideologica – di quella che abbiamo vissuto finora.

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