Lei si chiama Yu Hua, l’ultima volta l’avevo incontrata in un caffè e mi aveva chiesto se per caso fossi interessato a portare dei turisti in giro per Pechino, naturalmente gratis e “per fare esperienza”. Al mio cortese ma fermo diniego – “ho così tanta esperienza che non so più come darle da mangiare” – non aveva fatto una piega e si era rimessa a lavorare sul suo progetto di turismo alternativo.

Nella prima metà del 2016 i turisti stranieri in Cina sono stati quasi 70 milioni, generando un giro d’affari di circa 60 miliardi di dollari. La torta è ricca e in costante crescita. Anche se la maggior parte dei visitatori viene da Hong Kong o dai paesi asiatici, e anche se aumenta la percentuale di quelli che si fermano in Cina solo uno o due giorni, sempre più agenzie o piccoli operatori puntano alla clientela occidentale.

Yu vuole portare i turisti occidentali negli hutong, i vecchi vicoli di Pechino, per offrirgli un’esperienza “diversa”. Dopo qualche mese la incontro di nuovo e mi chiede se posso dedicarle qualche minuto, il suo progetto è quasi pronto e le serve il parere di uno straniero.

Travestimenti e selfie
Ha buttato giù un programma di massima: “Come prima cosa, andiamo a visitare una casa a corte (tipica degli hutong) abitata da due vecchietti che sono lì da sessant’anni e hanno bellissime storie da raccontare, perché voglio che i turisti conoscano la gente vera”, mi spiega.

“Mi pare una bellissima idea”.

“Mentre ascoltano le storie li faccio anche vestire con abiti tradizionali, che ne dici?”.

“Ecco, meglio di no”.

“Ma io voglio dargli qualcosa in più, fargli vivere l’esperienza”.

Vivere l’esperienza. La Cina è cosparsa di mete turistiche dove il massimo del divertimento sembra quello di travestirsi per farsi le fotografie o inscenare qualche pantomima. A Tongren, in uno dei monasteri lamaisti più famosi del paese, ci si può vestire da monaco o da pastore nomade tibetano; a Dandong, al confine con la Corea del Nord, si può posare in abiti tradizionali coreani con sullo sfondo il ponte ferroviario bombardato dagli americani durante la guerra negli anni cinquanta. Ma il massimo lo offre Yan’an, già tappa finale della lunga marcia di Mao e oggi capitale del “turismo rosso”. Lì è possibile addirittura rievocare in costume le battaglie tra le truppe nazionaliste e l’armata rossa e pare che molti scelgano di recitare la parte del “nemico” perché le divise e le armi sono più belle.

“Yu Hua”, le dico, “credo che un occidentale interessato alle storie dei vicoli pechinesi preferisca sorseggiare del tè o del vino in tutta tranquillità mentre le ascolta, invece che vestirsi da mandarino Ming e farsi i selfie”. Non sembra convintissima.

Clienti immaginari
Le altre tappe del suo tour sono: un laboratorio artigianale di ceramiche; un pingfang (le casette nei vicoli) dove si sono conservati degli affreschi molto belli e “antichi” (un centinaio di anni); e casa di sua mamma, che non è negli hutong.

“Scusa, ma che c’entra tua mamma?”.

“Cucina benissimo”.

“D’accordo, ma allora portala negli hutong e falle cucinare lì i ravioli per i tuoi turisti, in una casa a corte magari. Non obbligarli a viaggiare per un’ora fino a un anonimo appartamento della periferia di Pechino solo perché è tua mamma”.

“No, impossibile, così si stanca. E poi è molto timida”.

Da una decina d’anni le cose sono cambiate, ma ho l’impressione che l’approccio quantitativo – offrire il più possibile – sia ancora predominante

Yu Hua aggiunge che il tour dovrebbe durare al massimo tre ore e pensa di farlo pagare circa 150 dollari. Le consiglio di abbassare il costo e, soprattutto, di non concentrare tante cose in così poco tempo. Agli occidentali non piace correre, vogliono godersi quello che visitano e magari avere anche qualche tempo morto.
“Eh no, se lo faccio durare di più non posso dedicarmi ai miei figli”.

I clienti che immagina Yu Hua sono clienti immaginari: dovrebbero essere colti, in grado di apprezzare un itinerario “alternativo” ma al tempo stesso fan degli spettacolini da villaggio vacanze – il travestimento – e disposti a pagare tanto, girando come trottole da una parte all’altra per tre ore.

C’è una confusione di fondo tra qualità e quantità, che non mi è nuova. Una decina di anni fa sperimentai quella che noi stranieri definiamo real China experience: la visita alla famosa Chang Bai Shan, la montagna “sempre bianca” al confine tra Cina e Corea del Nord, con una comitiva di turisti cinesi. Dopo un tragitto in pullman di cinque ore, in cui la guida non smise un secondo di parlare, cantare e raccontare barzellette al microfono, la visita vera e propria durò un’oretta – compreso il pranzo – dopodiché si tornò indietro con altre cinque ore di strada. Mentre stavamo risalendo sul pullman, vidi il ragazzo sfinito e gli chiesi speranzoso: “Sei stanco?”. “Un po’”, rispose, e dopo cinque minuti stava di nuovo urlando al microfono.

Anche se da una decina d’anni le cose sono cambiate parecchio, ho l’impressione che l’approccio quantitativo – offrire il più possibile – sia ancora predominante. Corrisponde alla fame di vedere, di “accumulare” mete per poi farne sfoggio una volta tornati a casa, tipica dei turisti cinesi quando vanno all’estero. E se uno fa e vede tanto, paga tanto, no? Riflette in qualche modo la velocità con cui si è formata la classe media cinese: con un piede ancora nella civiltà contadina – mettere le provviste in cascina, che poi arriva l’inverno – e l’altro nell’acquisito benessere, cioè la disponibilità di spendere.

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