Alla fine del novecento le politiche economiche dell’America Latina sono state guidate dal cosiddetto Washington consensus, un pacchetto di direttive neoliberiste. All’inizio del ventunesimo secolo, invece, è entrato in vigore il “consenso delle materie prime” che ha spinto i governi di destra e di sinistra a basarsi sullo sfruttamento di minerali, petrolio e cereali per sostenere il proprio modello economico.
I prezzi elevati delle risorse petrolifere, minerarie e alimentari hanno favorito la crescita dell’economia, riducendo al contempo la povertà. I due eventi non vanno sempre di pari passo ma, a differenza di quanto succedeva nel resto del mondo, l’America Latina era riuscita in quegli anni ad arginare disuguaglianze particolarmente profonde.
Ora tutto è cambiato. Le quotazioni delle materie prime sono ai minimi storici e il Sudamerica affronta già da due anni la crisi economica, il calo delle entrate fiscali, l’aumento della disoccupazione e la nuova crescita della povertà. Inoltre, la fase di prosperità non è stata sfruttata per diversificare il sistema produttivo né per sviluppare l’industria manifatturiera e i servizi. Si è continuato a esportare materie prime, senza puntare su altre competenze e altri settori.
Nelle zone ricche di risorse naturali, non sono stati incentivati i produttori locali di macchinari per l’industria estrattiva; ospedali, scuole e altri servizi pubblici non sono stati potenziati, né sono state adottate misure di sicurezza ambientale vicino alle zone estrattive, agli impianti industriali e ai terreni di colture ogm.
L’estrazione intensiva comporta rischi per l’ambiente, pochi benefici per i poveri e corruzione
L’uruguayano Eduardo Gudynas è segretario generale del Centro latinoamericano de ecología social (Claes). Secondo Gudynas, l’attuale crisi economica dimostra che lo sfruttamento delle risorse naturali non aiuta a contrastare la povertà. Anzi, governi conservatori (in Messico, in Colombia e in Argentina) e di sinistra (in Cile, in Brasile e in Venezuela) hanno attuato misure di austerità che vanno in direzione opposta a politiche di welfare necessarie a combattere la povertà.
Gudynas critica l’entusiasmo per lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali anche per i numerosi casi di corruzione scoppiati nel settore. Uno su tutti, quello colossale che ha travolto la compagnia petrolifera brasiliana Petrobras.
Il crollo dei prezzi delle materie prime, continua lo studioso, sta “esaurendo la fiducia nel progresso” che ha guidato la maggior parte dei paesi sudamericani, e che allo stesso tempo ha provocato profonde divisioni sociali. Per esempio, la provincia argentina di San Juan, un tempo interamente favorevole alla presenza delle miniere, ora è spaccata tra chi ne chiede la chiusura a causa di un recente sversamento di cianuro nei fiumi della zona e chi, come gli imprenditori e gli operai, difende la propria attività e il proprio posto di lavoro.
“Per risarcire i danni ambientali sono stati aperti molti cantieri pubblici”, riconosce Gudynas. “Ma questo ha ripercussioni soprattutto sulle comunità indigene. Ci sono famiglie divise perché alcuni protestano e altri credono alle promesse di lavoro. Ci sono indigeni che protestano per l’inquinamento, ma solo finché non ne ricevono vantaggi economici o non riescono a sistemarsi anche loro nell’industria mineraria”, avverte l’intellettuale uruguayano, che immagina un passaggio graduale dal modello estrattivo a uno alternativo, “ma chiudendo subito gli stabilimenti inquinanti”.
Il calo dei prezzi delle materie prime rimette l’America Latina in una situazione critica che durerà anni
L’economista argentino Jorge Katz, professore presso l’università del Cile, sottolinea che l’epoca dei prezzi elevati delle materie prime è stata caratterizzata dalla “rapida espansione e trasformazione tecnologica del settore della lavorazione delle materie prime, che ha gradualmente migrato verso industrie basate sulla conoscenza e che ora fanno uso di sementi geneticamente modificate, droni, marcatori molecolari, biocidi di ultima generazione, tecnologie digitali eccetera”.
Ora, secondo Katz, il calo dei prezzi “riporta l’America Latina in una situazione difficile che durerà parecchi anni. Bisognerà conservare le capacità tecnologiche e le risorse umane acquisite nella fase di espansione”. È chiaro che lo squilibrio macroeconomico “renderà difficili molti degli interventi di cui il settore pubblico ha bisogno”.
Katz avverte che non sarà la “mano invisibile del mercato” a realizzare questi interventi. L’economista osserva che nel periodo di prosperità sono mancate politiche monetarie, fiscali e di controllo sui capitali (che evitassero l’apprezzamento delle valute) e non è stato attuato nessun tipo di risparmio per far fronte alla fase di contrazione attuale (con l’eccezione del Cile).
Dall’altra, Katz sottolinea che “sono molti i fallimenti del mercato che richiedono un intervento del settore pubblico”. Anzitutto, “realizzare un materiale genetico adeguato all’ecologia locale, finanziare lo sviluppo di prototipi di apparecchiature idonee all’ambiente di produzione interno, sollecitare l’avviamento di impianti di trattamento delle scorie industriali e di lavorazione della materia prima, porti d’imbarco, depositi sotterranei e strade”; in secondo luogo, “rafforzare gli organismi di controllo del settore pubblico di monitoraggio della sostenibilità sanitaria e ambientale dello sfruttamento delle risorse naturali”; e, infine, “fornire servizi di trasporto, scolastici e sanitari alle località coinvolte nell’attività estrattiva”.
Esiste la possibilità che siano azzerati i successi economici e sociali del recente passato
Si tratta di misure (inapplicate) che gli anni della crescita hanno lasciato in eredità a questa regione, che nonostante i problemi continuerà a produrre materie prime.
Stefan Peters, professore presso l’università di Kassel, in Germania, osserva che durante il periodo di crescita economica in America Latina sono rimaste invariate le disuguaglianze di sempre. Nella regione, infatti, accanto a settori ad altissima produttività, come quelli che esportano materie prime, se ne trovano altri che producono pochissimo, e in cui il 50 per cento della popolazione attiva lavora senza diritti né tutele sociali. Secondo Peters, sono rimaste in sospeso anche riforme fiscali e agrarie finalizzate all’aggiustamento della disuguale distribuzione delle entrate e della ripartizione della terra.
Il politologo, che è venuto a Buenos Aires a tenere una lezione all’università di San Martín, aggiunge che le riforme strutturali sono state rimandate probabilmente proprio grazie all’eccedenza nelle entrate dello stato. All’epoca non si faceva nemmeno “pressione” per diversificare il modello di produzione, prosegue il professore tedesco. “Ora tutti invocano la diversificazione, ma non è qualcosa che si realizza da un giorno all’altro. Quando sorgono altri problemi, poi, realizzarla diventa più difficile”, si rammarica. Ora preoccupa soprattutto l’eventualità che siano azzerati i successi economici e sociali del recente passato.
(Traduzione di Alberto Frigo)
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