Lunedì 4 gennaio, un giorno come tanti a Ramallah. Ho passato la mattina insieme a un artista palestinese che insegna ai ragazzi, e a un avvocato che voleva conoscermi. Poi ho guidato fino al villaggio di Qaryut, a nordest di Ramallah, per incontrare la famiglia Musa. Secondo il verbale, l’uomo accusato di aver sterminato una famiglia palestinese a luglio, avrebbe pianificato il suo attacco in una cantina in un piccolo avamposto illegale (come tutti gli insediamenti). La cantina, con la terra che la circonda, appartiene alla famiglia Musa, ma nel 2001 le è stata sottratta da un gruppo di coloni violenti. Gli avvocati dei Rabbini per i diritti umani guidano la battaglia legale contro questo furto.

A mezzanotte mi sono trovata a un checkpoint mentre i corpi di tre ragazzi palestinesi venivano riconsegnati da Israele per la sepoltura. I tre erano stati uccisi dalla polizia israeliana mentre cercavano di accoltellare civili o poliziotti a Gerusalemme. Decine di persone, parenti o vicini, erano riunite dietro il filo spinato, il cancello di ferro e la torretta di guardia. Dopo un’ora e mezza i corpi sono stati trasferiti dalle ambulanze israeliane a quelle della Mezzaluna rossa, per poi partire per Ramallah. “Quello che non posso accettare”, mi ha spiegato il padre di uno dei ragazzi, “è che non si sono accontentati di sparargli alle gambe. Mio figlio era solo un ragazzo di 16 anni. Reggeva un coltello e tremava. Bisognava sparargli alle gambe, arrestarlo e interrogarlo. Perché lo hanno ucciso?”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 8 gennaio 2016 a pagina 25 di Internazionale, con il titolo “Il ritorno dei corpi”. Compra questo numero| Abbonati

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