Quando parto dalla Palestina e da Israele temo sempre che lo scoppio di una nuova guerra o un’invasione militare mi lasci intrappolata all’estero. Questa volta non è accaduto niente del genere. Anzi, il nuovo fenomeno degli attacchi individuali di palestinesi armati di coltello sembra aver perso intensità, anche se non si può dire lo stesso dell’angoscia che l’ha causato.

Quando torno a casa dopo una lunga assenza – stavolta sono stata via tre mesi – devo affrontare le solite piccole preoccupazioni: sarà più difficile arrivare a casa mia a Ramallah, in Cisgiordania? Ci saranno nuovi checkpoint o strade bloccate? Questa volta è andato tutto bene. Ho raggiunto casa abbastanza facilmente, anche grazie al mio status privilegiato di israeliana. La connessione wifi funzionava e c’erano l’acqua corrente e l’elettricità.

Ma le mie preoccupazioni impallidiscono davanti alla costante incertezza e instabilità in cui vivono i palestinesi. I ragazzi possono essere arrestati in qualsiasi momento – dalla polizia palestinese o dall’esercito israeliano – per un post su Facebook o per aver partecipato a una manifestazione. I terreni possono essere confiscati, le case demolite, i permessi revocati, i viaggi all’estero vietati. La vita di chiunque può essere strappata dal proiettile di un soldato, in casa, durante una manifestazione o a un checkpoint. L’incertezza è superata soltanto dallo stupore per come le persone riescano a tirare avanti, nonostante tutto, in questa finta normalità.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 10 giugno 2016 a pagina 29 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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