Il 20 settembre, sull’imbarcazione che da Venezia mi portava in aeroporto, il cielo nuvoloso era colorato di rosa scuro. Il volto di uno dei passeggeri, un ragazzo, si è illuminato. Ha aperto il suo zaino e ha tirato fuori un quaderno per disegnare, poi una scatola piccola ed elegante che usava come tavolozza, poi un pennello sottile che ha immerso in una boccetta. Il traghetto stava accelerando, le nuvole cambiavano forma e il rosa diventava sempre più grigio. Il ragazzo ha dato un’occhiata fuori e poi ha cominciato a dipingere. Non ha immortalato tutto questo. Non avrebbe potuto. Ha dipinto un attimo fuggente di realtà, e soprattutto le sue impressioni, il suo innamorarsi del movimento delle onde e delle nuvole.

Non so perché, ma il ragazzo mi ha ricordato le tante persone di cui ho raccontato le storie in tutti questi anni, dipingendole e a volte scolpendole. I miei dipinti verbali hanno sempre mostrato la mia rabbia, lo so, ma voglio credere che le persone di cui ho parlato siano emerse come soggetti e non come oggetti sfruttati da un’arrivista. La strumentalizzazione è uno dei rischi più grandi per un giornalista. Io ricordo tutte quelle persone nei momenti più difficili della loro vita. Questa, in fondo, è la triste natura del giornalismo che parla di violenza di stato. Oggi quei momenti sono passati. Ma quanti di loro (temo pochi, purtroppo) hanno poi vissuto momenti migliori? Quanti meriterebbero un colore allegro, se dovessi ridipingere la loro storia?

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 23 settembre 2016 a pagina 25 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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