Mercoledì 16 novembre, mattina presto: sto preparando la mia richiesta di spiegazioni al portavoce dell’esercito israeliano sulle demolizioni nella valle del Giordano e sul brutale attacco contro un uomo di 53 anni, uno dei proprietari dei negozi distrutti. Alla radio israeliana si parla di un progetto di legge per abbassare il volume degli altoparlanti dei muezzin e di una legge per mettere in regola gli insediamenti illegali in Cisgiordania. Ascolto e intanto invio le mie domande per email.

Il pc è lento, quindi navigo un po’ sullo smartphone dando un’occhiata ai siti palestinesi. Parlano di uno scontro tra forze di sicurezza palestinesi e residenti armati nella città vecchia di Nablus. Parlano dell’irruzione dell’esercito israeliano all’alba nella sede di un centro di ricerca a Ramallah, che poi scopro essere l’Istituto per la salute, lo sviluppo, l’informazione e la politica (Hdip). Salah Hawwaja, un noto attivista, ha lavorato nel centro fino al suo arresto, un mese fa.

Tre ore dopo mi chiama un’amica di Tel Aviv: è appena stata a un’udienza del processo contro Salah. L’uomo è stato torturato e lo Shin bet cerca di incriminarlo con accuse assurde. Ma non ho tempo per occuparmene. Devo raggiungere un campo profughi per incontrare alcuni esponenti di Al Fatah, tutti ex detenuti. Gli è stato impedito di partecipare alla conferenza del partito Al Fatah. “Ci siamo rifiutati di sostenere Mohammed Dahlan, l’uomo del presidente Abu Mazen”, mi spiegano.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 18 novembre 2016 a pagina 33 di Internazionale con il titolo “Una giornata come tante”. Compra questo numero| Abbonati

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