Fra il tripudio dei festeggiamenti e le bandiere rosse di mezza Europa sventolate in piazza ad Atene, la questione è comprensibilmente passata in secondo piano. In effetti per i greci, e per tutti gli europei che hanno seguito il voto greco come un’appendice delle proprie elezioni nazionali, i rapporti tra l’Europa e la Russia e le frequentazioni di alcuni deputati di Syriza che sarebbero diventati ministri non erano proprio una priorità. Eppure, a governo fatto e con tutti i dicasteri assegnati, alcune perplessità sulla politica estera dell’esecutivo beniamino d’Europa oggi sono inevitabili. Sia in merito alle posizioni di Syriza sia, più prevedibilmente, a quelle del suo alleato, la destra nazionalista e ortodossa dei Greci indipendenti (Anel).

Nel caso del nuovo ministro della difesa Panos Kammenos – che in occasione delle elezioni del 2012 su Internazionale era definito “leader di un partito della destra populista” – le posizioni esplicitamente vicine a quelle del Cremlino non devono sorprendere, considerato il medesimo retroterra ideologico fatto di un nazionalismo alimentato dall’ortodossia e da un rifiuto più o meno netto di certi aspetti della modernità occidentale, per esempio i matrimoni gay.

Giova ricordare, tuttavia, le parole con cui lo scorso maggio il leader dell’Anel ha commentato l’annessione russa della Crimea: “Noi appoggiamo pubblicamente il presidente Putin e il governo russo, che hanno protetto i nostri fratelli ortodossi in Crimea”.
Sul fronte Syriza, la questione si fa più delicata e spinosa, e conferma che nell’Europa della crisi e dell’austerità molte barriere ideologiche sono ormai crollate, rendendo possibili delle liaison politiche apparentemente male assortite. Così si scopre che l’attuale ministro degli esteri greco, il professor Nikos Kotzias, di Syriza, nell’aprile del 2013 ha invitato per un convegno all’università del Pireo l’ultranazionalista ideologo dell’eurasismo russo, Aleksandr Dugin, tra gli ispiratori della recente svolta nazionalista di Putin.

E si scopre anche che lo scorso anno Alexis Tsipras è stato in Russia per incontrare Valentina Matvienko, fedelissima del presidente russo, ex sindaca di Pietroburgo e oggi portavoce del senato della federazione, e Aleksej Puškov, presidente della commissione esteri della duma, entrambi nella lista dei cittadini russi colpiti dalle sanzioni occidentali per il ruolo avuto nella crisi ucraina. In quell’occasione Tsipras non ha fatto mancare parole di apprezzamento per il referendum in Crimea.
Al di là di incontri e iniziative più o meno estemporanee, ci sono poi le scelte e gli atti politici concreti. Come la decisione dei sei eurodeputati di Syriza di opporsi alla ratifica, lo scorso settembre, del trattato di associazione con l’Ucraina, o di astenersi nel voto della risoluzione che condannava la chiusura di Memorial, una delle più importanti organizzazioni non governative russe per la difesa dei diritti umani. Oppure, infine, l’inciampo con cui il governo di Tsipras ha di fatto inaugurato il suo mandato: la decisione di prendere le distanze da un documento diffuso a nome di tutti e 28 i leader dei paesi dell’Unione europea per condannare i separatisti filorussi per il recente bombardamento di Mariupol, in Ucraina, e per chiedere nuove sanzioni contro Mosca.

Il pragmatismo che oggi tutti riconoscono a Syriza può essere certamente uno strumento essenziale per arrivare all’obiettivo che il governo si è dato: rinegoziare le misure di austerità e ottenere la cancellazione di parte del debito pubblico. Ma atteggiamenti simili in politica estera potrebbero finire per complicare i piani di Atene. E, comunque, viene spontaneo chiedersi perché mai un partito di sinistra moderno, aperto e non dogmatico debba sposare la causa di un regime ormai chiaramente autoritario, nazionalista e illiberale come quello della Russia di Putin.

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