Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre un incendio è scoppiato in un locale del centro di Bucarest, uccidendo 44 ragazzi e ragazze: 27 bruciati vivi o schiacciati nella calca subito dopo l’incidente, gli altri morti in ospedale in seguito alle ustioni riportate. Cinque giorni dopo si è dimesso il primo ministro Victor Ponta con tutto il suo governo. Un gesto dovuto in ogni paese europeo, hanno scritto diversi commentatori, spesso richiamando il caso della Lettonia e del premier Valdis Dombrovksis, che si fece da parte nel 2013 per il crollo del tetto di un centro commerciale a Riga, costato la vita a più di 50 persone.
Solo che in quell’occasione il premier ammise che l’incidente era stato causato da un’insufficiente supervisione del governo sui lavori di ristrutturazione.
A Bucarest, invece, a quanto pare, la responsabilità della tragedia in senso stretto può essere ricondotta al presidente del quarto municipio della città, Cristian Popescu Piedone, colpevole di aver tollerato la mancanza dei requisiti minimi di sicurezza nel club Colectiv, ospitato in una ex fabbrica di scarpe.
Gran parte della società romena è maturata dal punto di vista della coscienza politica, civile e democratica
Con ogni probabilità, in una situazione politica normale, la rabbia dei cittadini si sarebbe placata con le dimissioni del sindaco di Bucarest, se non addirittura solo con quelle di Piedone. Il quale, in effetti, il 4 novembre si è fatto da parte, per essere arrestato poche ore dopo dall’autorità nazionale anticorruzione.
Ma le decine di migliaia di persone che hanno manifestato a Bucarest e in altre città del paese la sera del 3 novembre hanno puntato il dito più in alto: contro il governo, contro l’establishment, contro l’intero sistema politico. E di fronte a slogan durissimi – “la corruzione uccide” è stato il più scandito – Ponta non ha avuto scelta.
Rassegnando le dimissioni ha detto: “Ho l’obbligo di constatare la legittima rabbia che esiste nella società. E mi assumo le mie responsabilità”. Il punto è proprio questo: la tragedia del club Colectiv è stata solo la scintilla che ha fatto detonare una situazione potenzialmente esplosiva già da tempo. Negli ultimi due anni gran parte della società romena è cresciuta enormemente dal punto di vista della coscienza politica, civile e democratica. E questa maturazione ha finito per scontrarsi con l’immobilismo e l’arretratezza della politica.
Una battaglia lunga e vittoriosa
Nel 2013 questa rinnovata ondata d’impegno civico si è concretizzata in una battaglia, lunga e alla fine vittoriosa, che per la prima volta dopo il 1989 ha riunito le diverse anime più critiche e consapevoli della società romena verso un obiettivo concreto e allo stesso tempo di grande valore simbolico: salvare il sito di Roșia Montana, nei boschi della Transilvania, dall’apertura della più grande miniera d’oro a cielo aperto d’Europa.
Poi ci sono state le elezioni presidenziali del novembre 2014, con la mobilitazione silenziosa, all’interno del paese ma soprattutto tra i romeni della diaspora, che ha portato all’inattesa vittoria di Klaus Iohannis e all’altrettanto inattesa sconfitta di Ponta.
Inoltre, la rabbia, la frustrazione e l’insofferenza sono state alimentate anche da fatti di cronaca, che hanno messo a nudo tutte le carenze e gli errori della macchina pubblica: dall’incendio del reparto maternità dell’ospedale di Giulesti, nella capitale, causato dalla negligenza del personale e dalla mancata manutenzione degli impianti elettrici e costato la vita a sei neonati, fino alla morte di un agente della scorta del ministro dell’interno Gabriel Oprea, avvenuta alla fine di ottobre e gestita dal diretto interessato e dal governo con un’arroganza che ha fatto inferocire buona parte dell’opinione pubblica.
In generale, la sensazione è che una fetta sempre maggiore di romeni sia diventata profondamente insofferente verso un sistema di potere considerato arrogante, paternalista, profondamente corrotto, inefficiente e soprattutto soffocante.
Un mondo composto di leader politici che fanno campagna elettorale regalando farina e zucchero agli anziani, di oligarchi troppo vicini alla politica, di preti ortodossi che, di fronte a una tragedia come quella di Bucarest, puntano il dito contro le vittime, colpevoli di ascoltare “musica satanica” e di celebrare una festa non cristiana ed estranea alla tradizione romena come Halloween.
Per ora le rivendicazioni di questa rivoluzione di strada, sono assai poco rivoluzionarie, ma estremamente ragionevoli e concrete
Se poi si considera che Ponta stesso è sotto inchiesta da giugno per evasione fiscale, corruzione, riciclaggio di denaro e conflitto d’interessi, appare evidente che il rogo di Bucarest è stato solo un tragico pretesto che ha fatto esplodere il malcontento dei cittadini.
Le manifestazioni, infatti, non si sono fermate con le dimissioni di Ponta: sono continuate più numerose in tutto il paese per giorni. E l’ondata che hanno messo in moto probabilmente non si fermerà tanto presto. Perfino a Roma alcune decine di persone hanno protestato l’8 novembre davanti all’ambasciata romena.
Per ora le rivendicazioni di questa revoluția străzii, rivoluzione di strada, sono assai poco rivoluzionarie, ma estremamente ragionevoli e concrete: un governo di tecnici, riforme istituzionali, lotta serrata alla corruzione, nuove regole elettorali. Alcuni aspetti delle proteste, inoltre, più che i movimenti degli indignados europei o i vari Occupy, ricordano le manifestazioni di piazza al tempo di Tangentopoli in Italia, con il loro portato di qualunquismo e populismo.
Ma una cosa è certa: otto anni dopo l’ingresso nell’Unione europea, la società romena si è risvegliata. E d’ora in avanti la politica dovrà fare i conti con questa nuova coscienza civile.
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