Aggiornamento: i risultati definitivi del voto ridimensionano considerevolmente l’ampiezza della vittoria del premier Vučić, il cui partito ha sempre la maggioranza assoluta in parlamento ma invece di guadagnare seggi ne perde 27. Questi sviluppi, dovuti anche al fatto che diversi partiti hanno superato la soglia di sbarramento, modificano in parte l’analisi iniziale, ma non ne stravolgono la sostanza: la vittoria degli europeisti del partito di Vučić non è stata un plebiscito, ma resta innegabile.

La scommessa di gennaio ha pagato. Tre mesi dopo la convocazione delle elezioni anticipate, e con due anni di anticipo sulla naturale scadenza della legislatura, il 24 aprile il primo ministro serbo Aleksandar Vučić ha ottenuto quello che cercava: un plebiscito che rafforza il suo potere e gli apre la strada verso altri quattro anni di governo.

Forte del 48,2 per cento dei voti, e con una maggioranza parlamentare che lo terrà al riparo da ogni rischio, ora Vučić potrà guidare il paese senza l’aiuto di partner di coalizione e proseguire il percorso di avvicinamento all’Unione europea avviato concretamente alla fine del 2015, con l’apertura dei primi due capitoli del negoziato di adesione.

Quello che a metà gennaio a qualcuno era sembrato un azzardo, alla fine si è dimostrato una mossa forse cinica ma efficace. Già alla guida di un esecutivo sorretto da una solida maggioranza parlamentare, e non minacciato da nessun rischio politico incombente, Vučić aveva capito che forzando un po’ la mano avrebbe potuto allungare di fatto di due anni il suo mandato, giustificando le sue manovre con la necessità di garantire al paese maggiore stabilità.

Del resto, il pragmatismo e la capacità di adattarsi alle trasformazioni del panorama politico, assecondando i mutamenti e guidandoli allo stesso tempo, sono sempre state le sue caratteristiche peculiari. Nato nazionalista nel Partito radicale serbo e già giovanissimo ministro ai tempi di Slobodan Milosevic, alla fine degli anni duemila Vučić si è spostato su posizioni di centrodestra, più moderate ed europeiste, fondando con l’attuale presidente Tomislav Nikolić il Partito del progresso serbo (Sns), che con gli anni si è affermato come la principale forza del paese.

L’ingresso nell’Unione europea entro il 2020 sembra un obiettivo piuttosto complicato da raggiungere

La promessa con cui Vučić si è presentato agli elettori, tuttavia, è forse troppo ambiziosa: l’ingresso nell’Unione europea entro il 2020 sembra infatti un obiettivo piuttosto complicato da raggiungere. Per diversi motivi, alcuni indipendenti dalle scelte di Belgrado, altri legati a quello che succede nel paese. È evidente che il momento non è propizio per parlare di un altro allargamento verso est: i partiti euroscettici sono in crescita ovunque, muri e barriere si moltiplicano, i paesi dell’Unione non sembrano più capaci di mettersi d’accordo su nulla e la principale preoccupazione degli europei è la gestione di flussi migratori in arrivo dal Medio Oriente, spesso proprio attraverso la rotta balcanica e la Serbia. Bruxelles e i 28, insomma, non sembrano pronti ad accogliere un nuovo membro nel club europeo.

C’è poi la situazione interna alla Serbia. Per chiudere i negoziati Belgrado dovrà prima o poi rinunciare a ogni pretesa di sovranità sul Kosovo, e se è vero che quest’anno per la prima volta la questione non è stata centrale nella campagna elettorale, difficilmente si può pensare che l’opinione pubblica sia pronta a compiere un simile passo nei prossimi cinque anni.

Sotto questo aspetto, dal voto sono arrivati segnali interessanti ma da interpretare. Gli ultranazionalisti del Partito radicale serbo di Vojislav Šešelj (vecchio mentore di Vučić, da poco assolto dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia dall’accusa di aver commesso crimini di guerra) sono tornati in parlamento dopo quattro anni, determinati a mettersi di traverso ai progetti europeisti di Vučić.

Forse però il violento spostamento a destra che molti avevano immaginato prima del voto è stato meno netto del previsto: i radicali si sono fermati al 7,9 per cento, mentre i sondaggi li davano intorno al 10 per cento, e l’altra forza della destra nazionalista, l’alleanza Dss-Dveri, potrebbe rimanere sotto alla soglia del 5 per cento, stando agli ultimi dati della commissione elettorale di Belgrado.

Rimane un fatto, però: negli ultimi cinque anni la percentuale dei serbi favorevoli all’ingresso nell’Unione europea è diminuita di quindici punti, mentre è aumentato del 20 per cento il numero dei cittadini che chiedono un’avvicinamento alla Russia, da sempre considerata dai serbi una specie di fratello maggiore slavo.

Dopo il voto del 24 aprile, insomma, il paese è più stabile e l’Europa è senz’altro più vicina. Ma forse non quanto Vučić ha voluto far credere ai suoi elettori.

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