“Coraggio e creatività per Milano”, titola in prima pagina il Corriere della Sera. Seguono oltre ottomila battute per dire, nell’ordine, che: l’imperativo è salvare l’Expo. “Allarme Milano” deve diventare “speranza Milano”. Bisogna tradurre i progetti in azione. Ci vuole un “momento collettivo” per mobilitare “le energie migliori dell’Italia che ce la fa”. Serve qualcosa di positivo. E (non poteva mancare) ci vuole “un appello ai giovani”. Perché (e come no?) “bisogna fare quadrato”.
Leggo, e mi viene il mal di mare.
Tra un’esortazione e l’altra, le ottomila e più battute citano, in ordine sparso: un convegno prossimo venturo. Una settimana europea del paesaggio. La funivia per salire sul Duomo. Il recupero di una piscina abbandonata. Una “traversata nel deserto con tante idee per cambiare Milano”. Per carità: egregie iniziative. Però.
È stata una delle voci più autorevoli del dibattito politico nazionale, l’energico comico genovese che non guarda in faccia a nessuno e dice le cose come stanno (sto ovviamente parlando di Maurizio Crozza), a porre, finalmente, la domanda che tutti dovrebbero farsi: a cosa serve l’Expo? Aggiunge il saggio Crozza: di altri eventi, lo scopo si capisce. Ma cosa mai vuol dire “nutrire il pianeta”?
La domanda è semplice. Ma le sconclusionate tracce dell’Expo che già affiorano dal caos suggeriscono l’assenza di risposte coerenti. C’è l’estroversa mascotte disneyana fatta di frutta e verdura, che niente c’entra con un logo tutto spigoli e complessità (uno specchio di luce e di vita!), che niente c’entra con i due grevi accrocchi metallici spuntati, ahimè, davanti a piazza Castello (una sorta di teaser della programmazione ventura!), che niente c’entrano con il mercatino retrostante (tra le offerte: birre artigianali e telerie per la casa, confetti di Sulmona, sciarpe del Milan), che niente c’entrano con il calendario degli eventi targati Expo.
Dopo diversi clic, districandomi tra pagine web luccicanti come vetrine di Natale, arrivo a “Calendario maggio 2014”. Dentro ci sono sì cose interessanti sul cibo, ma anche roba ugualmente pregevole che non c’entra neanche di striscio: dalla tre giorni di pianoforte al festival del tango, dalla violenza sulle donne alla mostra di Bernardino Luini, all’agenda digitale, all’animazione per bambini con bolle di sapone, alla gara di canoa e al rugby nei parchi. Di nuovo: qual è il senso?
Lavoce.info parla di ubriacatura retorica collettiva, aggravata da stime economiche azzardate: passata la sbronza, c’è il rischio di accorgersi di essersi fatti male. Non discuto delle stime economiche – non è il mio ambito di competenza – ma a parte quelle, che forse andrebbero sobriamente riviste, l’Expo potrebbe sviluppare un valore, immateriale sì ma importante, se aiutasse Milano a riappropriarsi di una capacità di progettare svanita da oltre vent’anni.
Progettare, però, è qualcosa di diverso dall’ammucchiare. E le persone brave ed entusiaste che oggi lavorano per l’Expo lo farebbero con efficacia maggiore disponendo di criteri congruenti ed espliciti a tutti. Dunque, torniamo al punto: che cavolo può voler dire “nutrire il pianeta”?
“Nutrire il pianeta” non è un’etichetta o l’insegna di una vetrina in cui cacciare qualsiasi offerta. Potrebbe diventare un progetto, se avesse una struttura capace di ordinare proposte dando loro una prospettiva.
Se fossi la Fatina delle Cause Rischiose, con un colpo di bacchetta proverei a rendere leggibile l’Expo mettendo a sistema codici, iniziative e proposte attorno a parole chiave che chiariscono il concetto di “nutrire” traducendolo in azioni positive.
Per esempio: “nutrire” significa rafforzare (le pratiche colturali e alimentari virtuose, i nuovi orientamenti al biologico, la consapevolezza del legame tra cibo e salute…). Significa rispettare (la biodiversità e il suolo; gli animali, anche quelli d’allevamento; le diverse tradizioni alimentari). Significa risanare (le terre inquinate, le terre di mafia, le terre desertificate).
Significa sfamare (gli indigenti del terzo mondo e gli emarginati del primo, scolari e anziani in modo sano). Significa mettere a frutto (il cibo oggi sprecato, le competenze agricole tradizionali, l’energia dei nuovi giovani agricoltori). Significa educare (alla sostenibilità, alla convivenza, all’interconnessione e alla complessità, al pensiero critico e alla lettura). Significa accogliere (turisti, altre tradizioni e culture). Significa condividere (conoscenze e competenze, risorse, buone pratiche).
Questa roba si chiama format: ce l’hanno le serie televisive e le grandi catene di distribuzione, i giornali e i programmi radio, le campagne pubblicitarie, i videogame, i siti web e Wikipedia. Un format non è altro che la struttura logica che aiuta a leggere un evento o una narrazione, orientandosi e cavandone un senso.
E, tra l’altro: non è che lo dico adesso perché mi sono svegliata di malumore. Ne ho parlato nel lontano 2009, davanti a un Formigoni tutto arancione e a una Letizia Moratti tutta beige. Il video è rovinato (se cliccate un po’ di volte, comunque, parte) ma l’audio si sente abbastanza. E qui c’è il testo dell’intervento: tutto nei quattro minuti previsti. Ah, tra l’altro parlavo anche di difficoltà nel garantire la trasparenza delle scelte.
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