Facciamo un passo indietro: è il 1993 e siamo agli albori della rete. Una vignetta di Pete Steiner, diventata poi famosissima (così famosa da meritarsi una pagina tutta per sé su Wikipedia) esce sul New Yorker. Mostra un cane seduto davanti al computer: “Su internet, nessuno sa che sei un cane”, recita la didascalia.
Nel 2015, ventidue anni dopo, Kaamran Hafeez disegna un’altra vignetta per il New Yorker: due cani chiacchierano osservando il padrone che naviga in rete. La didascalia dice: “Ti ricordi quando, su internet, nessuno sapeva chi eri?”
A citare le due vignette è un bell’articolo della Bbc, nel quale il giornalista esperto di tecnologie David Baker segnala che, attraverso la rete, noi abbiamo avuto “un modo per riprogettare le nostre identità, e per scoprire com’è essere qualcuno di molto diverso dal nostro io ‘reale’”. Ma non solo: attraverso il meccanismo dei “mi piace” otteniamo riscontri istantanei per qualsiasi piccolo aggiustamento identitario ci capiti di fare.
Senza poter valutare le conseguenze
Con internet, inoltre, le opinioni altrui inondano la nostra vita come mai è successo prima. E, come ben sa chiunque sia stato oggetto di bullismo, il giudizio pubblico viene esercitato in modo ampio e potente.
Ma se da una parte la rete connette tra loro le persone, dall’altra contemporaneamente disconnette le azioni dai loro effetti. Ed è così veloce da obbligarci ad avere reazioni istantanee, impedendoci però di ragionare sulle loro conseguenze.
Forse, conclude Baker, per sapere chi siamo davvero dovremmo disconnetterci (magari – aggiungo io – potremmo tornare a leggere romanzi: il vecchio, magnifico modo per scoprire com’è essere qualcuno di radicalmente diverso dal nostro io reale).
La manutenzione del sé virtuale sembra avviata a diventare un impegno a tempo pieno
Facciamo un secondo, più breve passo indietro: il termine Fomo (Fear of missing out – paura di essere tagliati fuori) entra nell’Oxford English Dictionary nel 2013. Genera ansietà sociale, scrive Science Daily, non tutti ne soffrono in maniera drammatica, ma comunque questo costante preoccuparci di ciò che pensano e fanno gli altri ci allontana dalle nostre vite. Forse ci vorrebbe una maggior dose di Yolo (You only live once – si vive una volta sola).
Anche Time parla di Fomo. Genera infelicità. Fa perdere il senso di sé. Ed è strettamente connesso con un accesso compulsivo ai social network: si va su Facebook appena svegli. Durante i pasti. E un’ultima volta appena prima di addormentarsi. L’unico modo per alleviare lo sconforto generato dal confronto sociale è presentare una versione della propria vita accuratamente editata. Ma c’è un risultato secondario: qualcun altro starà male sentendosi inferiore. I social network non sono il diavolo, scrive Time, ma dobbiamo smettere di usarli per paragonarci agli altri.
È venuto il momento di fare un breve ripasso: nel mondo reale, le reti sociali, cioè i sistemi di relazioni tra persone, sono sempre esistite. Nel mondo virtuale, il primo social network nasce nel 1997 e si chiama sixdegrees.com. In precedenza c’erano le chat (1988) e i sistemi di messaggistica.
Il nome Sixdegrees fa riferimento alla teoria dei sei gradi di separazione di Stanley Milgram: ogni persona al mondo è collegata a ogni altra attraverso una catena di conoscenze. Sixdegrees chiude nel 2001. Facebook nasce, come rete universitaria tra studenti, nel 2004. Sarà aperto al pubblico nel settembre del 2006. Poco più di dieci anni fa.
Una libertà dispotica
Torniamo a oggi. La relazione annuale del Pew research center mostra l’incremento dell’uso dei social network negli Stati Uniti tra il 2012 e il 2016, e la loro progressiva diffusione in ogni fascia di età: oggi è su Facebook quasi il 90 per cento tra i giovani tra i 18 e i 29 anni, ma c’è anche più della metà (il 65 per cento) di chi ha più di 65 anni. Tre quarti degli utenti visitano Facebook ogni giorno, e più della metà lo fa diverse volte al giorno: la manutenzione del sé virtuale sembra avviata a diventare un impegno a tempo pieno.
In Italia (ce lo dice la ricerca Digital in 2016) la penetrazione di internet è più bassa che negli Stati Uniti: a gennaio 2016 abbiamo un po’ più di 37,5 milioni di persone connesse, e 28 milioni di utenti attivi dei social network (di questi, 24 milioni sono connessi anche via telefono, ma la maggior parte del traffico continua a passare dal computer). Considerando che siamo poco più di 60 milioni di persone, sono comunque numeri importanti.
Nel nostro paese Facebook ha circa 28 milioni di utenti attivi, concentrati nelle fasce tra i 20 e i 49 anni. Man mano che i baby boomers invecchiano, è più che probabile che anche la fascia di utenti sopra i 65 anni diventi più ampia.
Torniamo agli Stati Uniti: l’Atlantic segnala che il 90 per cento dei bimbi di due anni ha già una presenza online. Molti debuttano su Facebook prima ancora di essere nati, in forma di immagine ecografica. I bimbi sono usati come testimoni di fede religiosa, scelte politiche, tifo calcistico. “Può sembrare naturale che i genitori vogliano che i propri figli abbraccino i loro valori e le loro credenze, ma questa libertà d’espressione diventa dispotica nel momento in cui ai bambini viene negata ogni libertà di scelta”.
Facciamo un terzo passo indietro: è il 2011 e un citatissimo articolo dell’università dell’Indiana segnala che i social network stanno disegnando un nuovo ecosistema della comunicazione, e che troppe aziende ancora non si rendono conto dell’opportunità di intrattenere conversazioni e di consolidare la loro reputazione in rete.
Appena quattro anni dopo, a fine 2015, Fortune scrive che nove aziende su dieci negli Stati Uniti usano i social network ottenendone aumenti nelle vendite, e che “il business non può sopravvivere senza i social network”.
La Harvard Business Review va oltre: i social network sono troppo importanti per lasciarli in mano al reparto marketing. I clienti oggi usano i social network per interagire con le aziende: vogliono risposte immediate, consigli, assistenza. E vogliono essere coinvolti (engaged). Oggi ci sono aziende che stanno online sempre, pronte a rispondere 24 ore su 24.
La nuova ansia da prestazione
Ora, facciamo un passo avanti. Inc.com pubblica un paio di previsioni sul futuro prossimo: anche agli amministratori delegati delle grandi aziende toccherà avere una presenza sui social network (e immagino che il numero di follower di ciascuno aprirà una nuova frontiera di competizione delle aziende, e sarà un nuovo motivo di ansia da prestazione per gli amministratori delegati). Fare rete sarà sempre più importante, sia per gli affari sia per le carriere individuali.
La formula ‘possa tu vivere in tempi interessanti’ si riferisce, per gli anglosassoni, a un’antica maledizione cinese
E poi: perfino gli enti benefici non potranno fare a meno dei social network per raccogliere fondi, scrive il Guardian. “I social network stanno diventando una forza dirompente in tutto il mondo”, scrive il New York Times, che aggiunge: “Preparatevi a vivere in tempi interessanti”. Il narcisismo cresce con la crescita dei social network (ancora il Guardian), e questo fatto è particolarmente rilevante per gli adolescenti, che sono molto influenzati dai loro pari.
Forbes afferma che i social network stanno dando forma al futuro del lavoro. Dice che l’attenzione di chi naviga va catturata entro otto secondi (i pesci rossi riescono a stare attenti più a lungo). Ricorda che bisogna profilare diversi pubblici su diverse piattaforme. Avverte che basta un tweet sbagliato per mettersi nei guai. E conclude dichiarando che “social è il modo in cui esistiamo”.
Non si può che concordare con il New York Times: sembra che vivremo davvero (virtualmente, e dunque realmente) in tempi interessanti.
Ma val la pena di ricordare che la formula “possa tu vivere in tempi interessanti” si riferisce, per gli anglosassoni, a un’antica maledizione cinese. Forse – e lo scrivo anche se immagino che molti di voi avranno trovato questo articolo proprio su Facebook – potremmo almeno domandarci come rendere i nostri tempi personali un po’ meno interessanti. Un po’ meno connessi. Un po’ più umani.
Buon anno nuovo a tutti voi.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it