Il centro di prima accoglienza di Lampedusa, il 10 marzo 2011. (Alfredo Falvo, Contrasto)

Mai come in queste ultime settimane s’impone di nuovo con forza un termine che sembrava destinato a essere dimenticato: campo.

Ai margini dei conflitti bellici e delle crisi umanitarie questa parola indica luoghi di accoglienza che si moltiplicano: aree di transito, centri di permanenza temporanea, siti per sfollati.

Il carattere provvisorio di queste strutture è, però, sempre più difficile da riconoscere. E la prima ragione è che ci si trova di fronte a fenomeni di mole imponente, che tendono a riprodursi e a diventare definitivi: nel mondo sono circa 46 milioni i profughi e gli sfollati.

Questo fa sì che il campo finisca per rappresentare oggi un paradigma addirittura più autentico della città nel descrivere le forme di vita contemporanee.

Inoltre, il modello del campo può ormai applicarsi non solo alle situazioni di emergenza, ma può costituire un modello esplicativo delle nostre stesse democrazie.

Per chiarire quest’affermazione bisogna comprendere che cosa sia un campo, da un punto di vista giuridico-politico.

Il punto di partenza può essere la definizione dei campi che più hanno segnato la nostra storia recente: quelli di sterminio nazisti. Settant’anni dopo, la domanda che accompagna il racconto di ciò che lì accadde è ancora questa: com’è stato possibile?

Si tratta, però, di un quesito scivoloso, che finisce per relegare nell’indicibile ogni possibile risposta: lo sfogo di pianto, la capitolazione di fronte all’irrazionale, impotente, afasica.

Da questa prospettiva, all’Europa sopravvissuta all’orrore sembra non rimanere altra forma di resistenza che la memoria, affinché quanto accaduto non si ripeta mai più.

Proprio in questa direzione sembra andare anche il testo di legge sul negazionismo, licenziato solo pochi giorni fa dal senato: per chi nega la shoah e i genocidi ci saranno pene più severe. Ma davvero la memoria è l’unico dovere di cui farsi carico?

Il rischio a cui espongono il fianco simili letture è quello di considerare i campi come null’altro che fatti storici e anomalie del passato: sono i luoghi dove si è inverata la perdita dell’umano e questo è ciò che conta per la posterità. Nell’esposizione anche minuziosa e dettagliata del funzionamento di queste macchine di morte si cerca, in ultima analisi, una loro definizione.

Ma, se è vero che le atrocità dispiegatesi nei campi risultano irriducibili al mero concetto giuridico di crimine, è altrettanto vero che spesso si è semplicemente omesso di considerare la specifica struttura giuridico-politica in cui quegli eventi si sono resi possibili. A seguire un’impostazione di questo tipo ci ha provato, per esempio, Giorgio Agamben. Osservando esclusivamente le trasformazioni della struttura dello stato, Agamben ha messo in luce il fatto che i campi sono arrivati quando lo stato di diritto era ormai niente di più che un’ombra.

Dal 1919 al 1924, infatti, i governi di Weimar fecero più volte ricorso alla dichiarazione dello stato d’eccezione: ovvero al provvedimento che comportava la sospensione degli articoli della costituzione tedesca che garantivano le libertà personali. Una sospensione poi dilatata a tempo indeterminato dai nazisti con un decreto emanato subito dopo la salita al potere, nel 1933. Quando, infine, Himmler decide di creare a Dachau il primo campo di concentramento, questo è affidato alle Ss e posto sotto il regime della Schutzhaft (letteralmente: custodia protettiva), un istituto giuridico classificato come misura di polizia preventiva che permetteva di prendere in custodia degli individui indipendentemente dalla rilevanza penale della loro condotta.

Posto al di fuori delle regole del diritto penale e carcerario, sottratto al controllo giudiziario e privo di ogni riferimento alla giurisdizione ordinaria, lo spazio del campo è davvero il luogo in cui tutto diventa possibile. Chiunque si trovi in questa sfera di eccezione viene spogliato di ogni habitus, di ogni forma di protezione, a partire dal diritto di cittadinanza, per apparire, infine, nella sua nudità di corpo inerme, esposto a un potere poliziesco di vita e di morte.

In definitiva, solo se si comprende questa particolare struttura giuridico-politica l’incredibile che nei campi è avvenuto diventa intelligibile e spiegabile. Ma proprio il nesso tra stato d’eccezione e campo che ha segnato quegli eventi continua a essere matrice – nemmeno troppo nascosta – degli accadimenti, delle decisioni e dei progetti politici dei giorni nostri.

Per tale ragione, occorre imparare a riconoscere i campi che ci stanno intorno. Sono campi i Cie: quei centri di identificazione e di espulsione che possono trattenere – fuori di ogni ordinamento, perfino quello penitenziario – cittadini stranieri fino a 90 giorni (solo pochi mesi fa era possibile trattenerli 18 mesi). Sono campi i “centri di raccolta rom” (questa la dicitura riportata nei documenti ufficiali) come quello di via Visso a Roma, un ex deposito di merci organizzato in celle senza finestre, privo perfino dei requisiti minimi di sicurezza, igiene e abitabilità. Sono campi le celle di Cucchi e quelle centinaia di detenuti che ogni anno muoiono di morti “da accertare” nelle carceri del nostro paese: strutture dove lo stato di eccezione è diventato definitivamente regola, assestatosi nella violazione sistematica dei diritti alla salute, all’incolumità, agli spazi minimi di detenzione.

È vero: si tratta di eventi e situazioni che presentano delle differenze anche molto rilevanti, ma ciò che le accomuna è che tutte sono state possibili proprio perché la legge si era ritirata e aveva lasciato spazio all’anomia. Ogni volta che lo stato di diritto si ritira, il campo avanza: e gli effetti, spesso, sono letali.

Per questo occorre imparare a riconoscere i campi che ci stanno accanto e difendere lo stato di diritto.

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