Mi sto abituando alla mia nuova voce. Il testosterone che assumo ispessisce le corde vocali e rende più grave il timbro. Questa voce agisce come un sistema di ventilazione che spinge dal di dentro. Sento una vibrazione che si diffonde nella mia gola, come se fosse una registrazione che esce dalla mia bocca e la trasforma in uno strano megafono. Non mi riconosco. Ma chi sarebbe l‘“io” in questa frase?

“Il subalterno può parlare?”, si chiede Gayatri C. Spivak riflettendo sulla complessità delle condizioni di enunciazione dei popoli colonizzati. In questo caso la domanda prende un senso differente. E se il subalterno fosse anche una possibilità già contenuta nel nostro stesso processo di soggettivazione? Come si può fare in modo che il nostro subalterno trans parli? E con quale voce? E se la perdita della propria voce, come indice ontoteologico della sovranità del soggetto, fosse la condizione prima per permettere al subalterno di parlare?

Una voce che fino ad allora non era la mia cerca nel mio corpo un rifugio, e io glielo darò

Sembra che neanche gli altri riconoscano questa voce modificata dal testosterone. Il telefono ha smesso di essere un fedele emissario ed è diventato un traditore. Quando la chiamo, mia madre risponde: “Chi è? Chi parla?”.

L’interruzione del riconoscimento rende esplicita una distanza che è sempre esistita. Gli parlavo, ma loro non mi riconoscevano. La necessità di una verifica mette a dura prova la filiazione. Sono davvero suo figlio? Lo sono mai davvero stato? Sono tentato di riagganciare perché temo di non essere in grado di spiegare quel che succede. Altre volte dico “sono io” e subito aggiungo “sto bene”, come per evitare che il dubbio o il panico si contrappongano all’accettazione.

Una separazione tecnica

Una voce che fino ad allora non era la mia cerca nel mio corpo un rifugio, e io glielo darò. Sono sempre in viaggio, una settimana a Istanbul, un’altra a Kiev, Barcellona, Atene, Berlino, Kassel, Helsinki, Francoforte, Stoccarda e così via. Il viaggio traduce il processo di mutazione, come se la deriva esteriore cercasse di raccontare il nomadismo interno. Mi sveglio raramente due volte nello stesso letto, o nello stesso corpo. Dappertutto sento il rumore della battaglia che contrappone la permanenza al cambiamento, tra l’identico e il diverso, tra la frontiera e la sfumatura, tra quanti possono restare e quanti sono obbligati a partire, tra la morte e il desiderio.

Questa voce apparentemente maschile ridefinisce il mio corpo e lo libera da verifiche anatomiche. La violenza epistemica del doppio binario di sesso e genere riduce l’eterogeneità di questa nuova voce alla mascolinità. La voce è maestra di verità.

Mi viene allora in mente la radice latina – testis – che forse è comune alle parole testimone e testicolo. Solo colui che possiede i testicoli può parlare davanti alla legge. Allo stesso modo in cui la pillola provoca una separazione tecnica tra l’eterosessualità e la riproduzione, il ciclopentilpropionato, il testosterone che m’inietto per via intramuscolare, ha determinato una separazione tra la produzione ormonale e i testicoli.

La nostra civiltà occidentale si è specializzata nel capitale e nella dominazione, non nella collaborazione o nella mutazione

O, per meglio dire, i “miei” testicoli (se con questo termine s’intende l’organo che produce il testosterone) sono inorganici, esterni, collettivi e dipendono in parte dall’industria farmaceutica e in parte dalle istituzioni legali e sanitarie che mi permettono di avere accesso alla molecola.

I “miei” testicoli sono un flaconcino di 250 milligrammi di testosterone che porto nello zaino. Il punto non è che i “miei” testicoli sono fuori del mio corpo, quanto piuttosto che il “mio” corpo sia al di là della “mia” pelle, in un luogo che non può essere pensato come semplicemente mio. Il corpo non è proprietà, ma relazione. L’identità (sessuale, di genere, nazionale o razziale) non è essenza, ma relazione.

I miei testicoli sono un organo politico che abbiamo inventato collettivamente e che ci permette di produrre una forma intenzionale di mascolinità sociale: un insieme di modalità d’incarnazione che, per convenzione culturale, noi riconosciamo come mascoline.

Mescolandosi al mio sangue, questo testosterone sintetico stimola l’adenoipofisi e l’ipotalamo, bloccando così l’ovulazione. Non vi è tuttavia produzione di sperma, perché il mio corpo non possiede né cellule di Sertoli né tubuli seminiferi. Immagino che non sia così lontano il giorno in cui una stampante tridimensionale potrà crearli a partire dal mio stesso dna. Ma, per ora, all’interno del nostro episteme capitalistico-petro-linguistico, la mia identità trans deve costruirsi attraverso un fai da te molto meno tecnologico.

Se avessimo investito nel tentativo di comunicare con gli alberi le stesse energie che abbiamo consacrato alla trasformazione e all’estrazione del petrolio, forse saremmo in grado d’illuminare una città con la fotosintesi, o magari di sentire la linfa vegetale che ci scorre nelle vene.

Ma la nostra civiltà occidentale si è specializzata nel capitale e nella dominazione, nella tassonomia e nell’identificazione, non nella collaborazione o nella mutazione. Con un altro episteme, la mia nuova voce potrebbe essere quella di una balena o il suono di una slitta. Adesso, invece, è semplicemente una voce maschile.

Ogni mattina il tono della prima parola che pronuncio è un enigma. La voce che parla attraverso il mio corpo non si ricorda di se stessa. Il viso, anch’esso in mutazione, non può essere un luogo stabile capace di offrire alla voce un terreno d’identificazione. Al contrario essa declina la soggettività al plurale: non dice io, dice noi siamo il viaggio. Forse è quel che rimane dell’io occidentale e dell’assurda pretesa di un’autonomia individuale: essere il luogo nel quale si crea e si disfa la voce, il luogo, come avrebbe detto Jacques Derrida, a partire dal quale si compie la decostruzione del fono-logo-fallocentrismo.

Privato della voce come verità del soggetto, e sapendo che i testicoli sono sempre uno strumento sociale protetico, mi sento come un comico caso di studio derridiano, e rido di me stesso. E ridendo mi accorgo che la mia voce deraglia nella mia gola.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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