I sondaggi potrebbero anche rivelarsi sbagliati, e magari domenica sera il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan otterrà la maggioranza parlamentare dei due terzi, che gli permetterebbe di autoassegnarsi grandi poteri imponendo al paese un sistema presidenziale, o quantomeno riuscirà a far eleggere un numero di deputati del suo partito (Partito per la giustizia e lo sviluppo, Adalet ve kalkınma partisi, Akp) sufficiente a tentare la via del referendum. Per il momento, però, le previsioni dicono altro.
Allo stato attuale i sondaggi non garantiscono nemmeno una maggioranza semplice a Erdoğan. L’uomo e il suo partito sono ormai lontani dal sostegno popolare di cui hanno goduto dopo le elezioni del 2002 e dalle costanti vittorie agli scrutini successivi. C’è stata un’età dell’oro per Erdoğan e per l’Akp, un’epoca in cui un tasso di crescita alla cinese ha permesso la costruzione di nuove infrastrutture ai quattro angoli del paese, riducendo la disoccupazione e spingendo la Turchia tra le prime venti economie del mondo.
Era l’epoca in cui questo partito islamista affascinava il mondo con il successo della sua conversione alla democrazia e al rispetto della laicità. Diventati “islamici conservatori”, questi ex islamisti facevano proseliti in tutto il mondo arabo, a cominciare dalla Tunisia. Ma ora le cose sono cambiate.
Il tasso di crescita turco è tornato sotto il 3 per cento, mentre il tasso di disoccupazione è all’11 per cento. Questa situazione alimenta il malcontento, e l’autoritarismo megalomane da cui è affetto Erdoğan dopo 12 anni alla guida del governo e dieci mesi come presidente preoccupa molti elettori. I laici si fidano sempre meno di lui, le nuove classi medie nate dal boom non sopportano il suo tradizionalismo e nel frattempo intere frange dell’Akp vorrebbero formare una destra modernista e liberale a immagine e somiglianza delle altre destre europee.
Oggi i mezzi d’informazione e i sondaggisti turchi vedono Erdoğan in grande difficoltà, ma cosa accadrebbe se le loro previsioni fossero confermate?
Sarebbe un cambiamento epocale, a livello nazionale e forse anche regionale. Secondo una prima ipotesi Erdoğan potrebbe conquistare una maggioranza parlamentare che però non sarebbe abbastanza netta da modificare la costituzione. Umiliato e senza altri poteri oltre a quelli protocollari, il presidente potrebbe perdere il controllo del suo partito, all’interno del quale i modernizzatori stanno guadagnando sempre più spazio. Sarebbe la prova che l’islamismo è compatibile con la democrazia, ma in questo caso il cambiamento resterebbe all’interno della Turchia.
Una seconda ipotesi sarebbe quella in cui il “califfo” (come lo chiamano i suoi oppositori) non otterrebbe nemmeno una maggioranza semplice e sarebbe costretto ad allearsi con il partito curdo (Partito democratico dei popoli, Partiya demokratik a gelan), che accetterebbe di appoggiarlo solo in cambio di una grande autonomia delle regioni curde. In un momento in cui il Kurdistan siriano e quello iracheno sono sostanzialmente indipendenti, uno sviluppo di questo tipo scatenerebbe un terremoto e contribuirebbe pesantemente alla ridefinizione delle frontiere in tutta la regione. Le elezioni di domenica, insomma, potrebbero avere un’importanza capitale.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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