Mentre la verità su ciò che è successo a Colonia la notte di capodanno continua a cambiare rispetto alla versione presentata nei primi giorni di gennaio, appare sempre più chiaro che molti giornali europei sono caduti nel sensazionalismo, annunciando un migliaio di aggressioni sessuali e dipingendo l’immagine di ondate di migranti appena sbarcati per stuprare le donne europee. La cancelliera Angela Merkel e la sua politica migratoria erano chiaramente nel mirino.
Ma non è soltanto la stampa populista o di estrema destra a essere caduta in trappola: è accaduto anche a un romanziere e giornalista algerino di grandissimo talento, Kamel Daoud, autore di Il caso Meursault, premiato con il Goncourt del primo romanzo nel 2015. Daoud ha scritto per alcuni importanti giornali internazionali un’opinione che ha suscitato grandi polemiche nel mondo intellettuale delle due rive dell’oceano.
Il suo pezzo, prima pubblicato su La Repubblica e sul quotidiano francese Le Monde e poi ripreso in versione modificata in inglese – e in arabo – dal New York Times con il titolo La miseria sessuale del mondo arabo, ha spinto Daoud nell’altro campo rispetto alla sua posizione intellettuale abituale. Il tema dell’identità algerina, intrappolata nella questione postcoloniale, è un tema caro allo scrittore: Il caso Meursault è anche un processo ad Albert Camus che fonda Lo straniero sull’uccisione di un arabo anonimo, senza identità. Daoud decide invece nel suo romanzo di dare un nome – Haroun – a questo arabo ucciso da Meursault. Raccontando la sua storia ridà soggettività e dignità all’altro.
All’inizio del suo articolo su Colonia, Daoud resta su questa linea: lo scrittore cerca le ragioni profonde della “miseria sessuale araba”, contestualizzando il suo pensiero all’interno della cultura algerina e araba:
Il sesso è un tabù complesso. In paesi come l’Algeria, la Tunisia, la Siria o lo Yemen, è il prodotto della cultura patriarcale, di un conservatorismo diffuso, dei nuovi codici intransigenti degli islamisti, e del puritanesimo discreto dei vari socialismi della regione.
Seguono spunti molto interessanti sulla questione sessuale e il rapporto con il corpo della donna araba e musulmana, ma alla fine Daoud esce inaspettatamente del contesto nordafricano e mediorientale per concludere che, dopo le violenze sessuali di piazza Tahrir in Egitto e del capodanno di Colonia:
Quello che era stato lo spettacolo sconcertante di terre lontane si trasforma in uno scontro culturale sul suolo stesso dell’occidente. Il grande pubblico occidentale scopre, nella paura e nell’agitazione, che nel mondo musulmano il sesso è malato e che questa malattia sta arrivando sulle proprie terre.
Un gruppo di 19 studiosi, antropologi, sociologi, politologi gli risponde dopo qualche giorno su Le Monde:
Nel suo testo Daoud riduce uno spazio che riunisce oltre un miliardo di abitanti e si estende su molte migliaia di chilometri a un’entità omogenea, definita solo dal suo rapporto con la religione, “il mondo di Allah”. Tutti gli uomini che lo abitano sono prigionieri di dio e i loro atti determinati da un rapporto patologico con la sessualità.
Il paladino dell’affermazione del soggetto arabo, in questo contesto postcoloniale, cade anche lui nella trappola dello scontro, scrive il collettivo:
Questa visione asociologica, che crea dal nulla uno spazio inesistente, produce di riflesso un occidente che appare come il focolare di una modernità felice ed emancipatoria. La realtà delle molteplici forme d’ineguaglianza e di violenza contro le donne in Europa e in Nordamerica non è ovviamente citata. Questo essenzialismo radicale produce una geografia fantastica che oppone un mondo della sottomissione e dell’alienazione al mondo della liberazione e dell’istruzione.
Sul sito Altmuslimah, la femminista musulmana americana Samar Kaukab insorge soprattutto contro la scarsa cultura femminista di Daoud. Lo scrittore, scrive, prende le difese delle donne, negando però le loro lotte degli ultimi vent’anni. E aggiunge:
I corpi delle donne, e in particolare i corpi delle donne musulmane, sono stati e sono ancora troppo spesso il campo di battaglia del mondo. Daoud elabora una critica che ignora semplicemente un’altra verità: le donne in tutto il mondo, in quello occidentale come in quello arabo, sono soggette a livelli allarmanti di violenza, che siano velate o no.
Ma la critica decisiva al testo dello scrittore algerino è anche quella più benevola: Adam Shatz, critico letterario della London Review of Books, si dice “preoccupato” per il suo amico Daoud, al quale ha dedicato un lungo ritratto sul New York Times l’anno scorso. A Shatz non è piaciuto il tono della lettera del collettivo, che gli ricorda lo stile “della sinistra sovietica e puritana”, ma “stenta anche a immaginare che Daoud possa credere davvero quello che ha scritto”:
Senza una prova che l’islam abbia esercitato un’influenza sulle menti di questi uomini di Colonia, mi sembra strano fare simili affermazioni e suggerire che questa ‘malattia’ minacci l’Europa. Nel suo libro Malattia come metafora, un’opera diventata un classico, Susan Sontag dimostra che l’idea di ‘malattia’ ha una storia poco invidiabile, spesso legata al fascismo. Gli ebrei, come sai, erano considerati come una specie di malattia; e gli antisemiti d’Europa, nel diciannovesimo secolo, all’epoca dell’emancipazione, si sono mostrati molto preoccupati dei costumi sessuali degli ebrei, e della dominazione degli uomini ebrei sulle donne. L’eco di questa ossessione mi mette a disagio.
La risposta del collettivo, gli attacchi delle femministe musulmane e la lettera dell’amico hanno avuto un effetto tellurico: Daoud, autore di una famosa rubrica sul Quotidien d’Oran, di cui è stato direttore per otto anni, appena insignito del Prix Jean-Luc Lagardère 2016 come migliore giornalista dell’anno, annuncia di volere chiudere con l’attività giornalistica per dedicarsi esclusivamente alla letteratura.
Con il successo mediatico, ho finito per capire due o tre cose. Innanzitutto che viviamo oramai in un’epoca in cui ci viene intimato di schierarci: se non stai da una parte, stai dall’altra. Avevo scritto una parte del testo su Colonia, quella sulla donna, anni fa. All’epoca, non aveva provocato quasi nessuna reazione. Oggi, i tempi sono cambiati: le tensioni ci spingono a interpretare, e le interpretazioni portano al processo.
La sua risposta indirizzata a “un caro amico” – Shatz, l’autore della London Review of Books – dice tanto sulle fobie della nostra epoca, ma anche sulla difficoltà di pensare liberamente nella riva sud del Mediterraneo, in contesti politici tesissimi, senza essere giudicato o strumentalizzato:
Ho capito anche che viviamo in un’epoca difficile. Come nel passato lo scrittore venuto dal freddo, oggi lo scrittore venuto dal mondo cosiddetto arabo è intrappolato, diffidato, spinto da un lato e dall’altro. La sovrainterpretazione lo aspetta al varco e i mezzi d’informazione lo tartassano per confermare chi una certa visione, chi un rifiuto o un diniego. Lo scrittore venuto dalle terre di Allah è oggi sottoposto a delle pressioni intollerabili da parte dei media. Non posso farci molto, solo sottrarmi a tutto ciò: con la prudenza, come credevo, ma anche con il silenzio che ho scelto da oggi.
La “miseria” a cui si riferisce il titolo dell’articolo di Daoud, insieme al tema della decadenza e del malessere da opporre a un’epoca d’oro, a un rinascimento, è un paradigma ricorrente nel pensiero arabo, descritto in modo magistrale dallo storico e intellettuale Samir Kassir nel suo L’infelicità araba. Lo scrittore libanese Elias Khoury faceva riferimento alla stessa “decadenza” e alla necessità di un risveglio culturale arabo in un suo recente editoriale sul quotidiano Al Quds al Arabi.
Questa controversia rispecchia anche la difficoltà di un intellettuale proveniente da un paese arabo o musulmano di esprimersi senza essere subito considerato come il rappresentante di un gruppo, e non come quello che è: un individuo frutto di un percorso esistenziale e intellettuale specifico, un soggetto e non l’arabo anonimo, ucciso su una spiaggia nel romanzo di Camus.
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