Il programma della televisione panaraba Mbc, Arab idol, è la versione araba del talent show The voice. Come quelle declinate in tanti paesi del mondo è un pilastro della cultura popolare ed è costruita con un copione ben definito con tanto di scene al rallentatore, sorprese (finte) e suspense sapientemente alimentata.
Nel 2012, quando il giovane palestinese di Gaza, Mohamed Assaf, ha vinto la finale di Arab idol a Beirut, la Palestina intera, superando le divisioni tra Cisgiordania e Gaza, è scesa in strada a festeggiare l’eroe nazionale e a esultare insieme all’intero mondo arabo. Da bambino povero, nato in uno dei non luoghi più martoriati del pianeta, Mohamed Assad si è trasformato in una star, arrivando a ottenere il titolo di ambasciatore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel vicino oriente (Unrwa) e a girare il mondo con un passaporto diplomatico.
Dal favoloso percorso di Assaf, e anche guardando il trailer del film, ci si poteva aspettare una versione lunga ed edulcorata dello show televisivo, un classico blockbuster all’americana ma in salsa palestinese, dove i buoni, alla fine, vincono.
Invece Hany Abu Assad, che già con Paradise now (candidato all’Oscar e vincitore del Golden globe) e Omar (candidato all’Oscar) aveva saputo affrontare con finezza la realtà palestinese, ha girato una favola nella Striscia di Gaza assolutamente realistica.
È tutto vero, nella migliore tradizione del neorealismo italiano, anche se qualcosa è stato cambiato. Per esempio Assaf ha sei fratelli e sorelle, mentre nel film ci si concentra sul suo rapporto con una sola sorella, Nour. Ma tutti i personaggi, in particolare i bambini, che vengono tutti da Gaza, sono di un realismo disarmante. Ed è indimenticabile l’intensità della ragazzina che interpreta Nour, “un maschiaccio” che spinge Mohamed a cantare.
È sorprendente e realistica la descrizione della Striscia di Gaza di undici anni fa
Soprattutto è sorprendente e realistica la descrizione della Striscia di Gaza di undici anni fa, quando non era ancora divisa dalla Cisgiordania. Le peripezie di quattro bambini per procurarsi degli strumenti musicali e formare una band fanno pensare a un piccolo Quattrocento colpi a Gaza. Li seguiamo in bicicletta nella campagna, sotto cieli aperti e davanti a lunghe spiagge deserte. Grazie a loro tutto sembra possibile, avvolti come sono nella forza della leggendaria resilienza palestinese. Davanti al mare tutto sembra possibile, anche se il filo spinato ci ricorda che esistono i confini.
Ma orribilmente vere sono anche le immagini della Striscia nel 2012, dopo la guerra. La resilienza non ha più niente di romantico: è ormai l’unica cosa rimasta. Il Mohamed postadolescente si aggira in un paese in rovina, una prigione dove qualsiasi possibilità di futuro è stata cancellata. Ed è lì che comincia la vera favola.
Assaf sfrutta meglio che può una serie di incredibili colpi di fortuna, come quando riesce a commuovere un ufficiale musulmano alla frontiera con l’Egitto, cantando una sura del Corano. Dopo essere riuscito a infilarsi di nascosto nell’albergo del Cairo dove si fanno le selezioni del programma, uno sconosciuto egiziano di origine palestinese lo sente cantare in bagno e gli regala il suo biglietto per partecipare al programma. E quando una donna della giuria (Nadine Labaki, la regista libanese di Caramel) dice a Mohamed che è “l’unico concorrente venuto da Gaza”, capiamo l’eccezionalità di questa storia vera.
Occhio allo spoiler
L’enorme successo del programma, e anche quello di Assaf, potrebbero essere due potenti spoiler: la fine della storia è molto nota. Ma Abu Assad è riuscito a giocare in modo sottile con la realtà. Nell’ultima scena del film, il personaggio di Mohamed, recitato dal perfetto Tawfeek Barhom, si presenta davanti alla telecamera e a lui si sostituisce il vero Assaf: alla finzione si mescolano le immagini di archivio, del reality e dei telegiornali di mezzo mondo. È tutto vero, dice Abu Assad, e anche a Gaza ci può essere un lieto fine.
Arab idol è uno dei grandi esempi di una cultura popolare panaraba ancora molto viva: i classici egiziani di Abdel Halim Hafez (a cui Assaf viene paragonato), Umm Kulthum o i titoli delle canzoni politiche palestinesi, sono ascoltati e applauditi dal Marocco fino all’Iraq.
Ma in questo contesto spesso politicizzato all’eccesso, il successo di Assaf non è letto come un lieto fine in sé. Al contrario, gli artisti palestinesi soffrono più di chiunque altro il loro status di simbolo politico della lotta di liberazione. Assaf è molto attaccato alle sue origini, ma anche terribilmente angosciato da questa responsabilità ingombrante, dal peso che si deve portare sulle spalle un eroe nazionale palestinese. Essere un arab idol significa anche che le aspettative nazionaliste e politiche impediranno di esprimersi artisticamente, toglieranno la libertà a cui aspira ogni artista.
Fortunatamente Abu Assad, palestinese anche lui, ha saputo evitare la trappola: ha raccontato la storia di questa voce straordinaria e del percorso eccezionale intrapreso da un Gazawi che ha, come dice la star libanese Nancy Ajram a Mohamed, la particolare capacità, tipica dei palestinesi, di “sognare in grande”.
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