Weiguo jiepan, “assumersi il rischio per il paese”, è lo slogan rimbalzato sui mezzi d’informazione cinesi nei mesi precedenti al crollo delle borse del paese. La situazione stava per precipitare, ma il governo di Pechino voleva convincere i cittadini che comprare azioni era diventato una prova di patriottismo perché “assumersi il rischio per il paese è quello che fanno i guerrieri più valorosi”. Come spesso accade, in migliaia di commenti online lo slogan è stato usato per ironizzare sulle scelte politiche del governo esprimendo il crescente scetticismo verso la finanza con caratteristiche cinesi senza essere censurati.
Jiepan (assumersi il rischio) si è diffuso in maniera virale nell’ultima settimana, quando la situazione delle borse cinesi si è fatta così grave da essere paragonata al crollo di Wall Street del 1929. Online sono comparsi i vecchi poster della propaganda maoista con lo slogan “Non bisogna aver paura! Io mi assumo il rischio!” accompagnati da commenti come: “Ecco qual è la grande strategia della borsa: assumetevi il rischio per il paese, non chiedete risarcimenti”. Sono parole che criticano l’operato del governo ma che si confondono con i proclami ufficiali comparsi anche sui tabelloni delle stazioni ferroviarie: “Combattete per salvare le azioni di tipo A (i titoli di società della Cina continentale negoziati a Shanghai o a Shenzhen in moneta locale). Scendete in campo, se potete”. Ma quando in Cina la propaganda viene dispiegata in maniera così capillare e la rete risponde in maniera così esasperata, significa solo una cosa: il vertice del potere si sente minacciato. E infatti siamo di fronte al primo vero scoglio dell’era Xi Jinping.
Come al casinò
Il mercato azionario cinese è secondo solo a quello degli Stati Uniti, ma ha caratteristiche particolari. Le borse di Shanghai e Shenzhen hanno 90 milioni di piccoli azionisti, più degli iscritti al Partito comunista cinese, e secondo alcune stime, costituiscono circa l’80 per cento del totale degli investitori: persone comuni che giocano con la finanza come fossero al casinò. Così, quando quest’anno l’indice di Shanghai è salito vertiginosamente fino a toccare rialzi del 150 per cento, i piccoli risparmiatori cinesi sono stati travolti da un’euforia contagiosa.
Solo a maggio sono stati aperti 12 milioni di nuovi conto-titoli. Ma i grandi investitori hanno cominciato a vendere. Il 12 giugno il sistema che aveva portato a guadagni facili ha cominciato a crollare ed è esploso il panico. Il governo ha reagito e i piccoli risparmiatori hanno svenduto: meglio avere a disposizione contanti che azioni. I prezzi si sono abbassati fino a raggiungere il loro valore minimo. La paura ha travolto qualsiasi prodotto: dall’argento allo zucchero, dal rame alle uova, dal ferro ai germogli di soia. In sole tre settimane, le borse cinesi hanno perso il 30 per cento: più di tremila miliardi di dollari, 20 volte le previsioni dei tagli al debito greco.
In questo scenario di crisi è già emerso il capro espiatorio: Xiao Gang, il funzionario che era stato messo a capo della Csrc, la Consob cinese, dato in pasto all’opinione pubblica che sul web ha potuto attaccarlo liberamente, in alcuni casi anche in modo esplicitamente violento. Xiao è ritenuto il diretto responsabile della bolla finanziaria e della caduta delle borse cinesi. E molto probabilmente alla fine sarà lui a pagare per tutti. Si è assunto il rischio per il bene del paese, verrebbe da commentare.
Ma secondo l’Economist, la situazione non è così grave e il rischio non è sistemico. Il settimanale britannico spiega che la borsa cinese è semplicemente tornata ai livelli dello scorso marzo, pari all’80 per cento in più rispetto a un anno prima. Inoltre la finanza giocherebbe un ruolo ancora marginale rispetto all’economia reale della Repubblica popolare. Costituisce solo un terzo del suo pil, contro il cento per cento o più delle economie dei paesi sviluppati. Il problema qui, sarebbe tutto politico. “Il governo ha investito credibilità e prestigio nel mercato azionario. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno affermato a più riprese la volontà che il mercato azionario foraggi maggiormente la finanza d’impresa. La fine improvvisa di questa corsa intacca per la prima volta la reputazione pubblica della squadra Xi-Li”.
Inoltre, le azioni messe in atto per tamponare la crisi sono l’antitesi dei loro proclami di inizio mandato, quando – per la prima volta nella storia della Repubblica popolare – hanno auspicato che le forze di mercato giocassero“un ruolo decisivo” nell’allocazione delle risorse. Il blocco delle offerte pubbliche iniziali e dell’acquisto di titoli a credito, il divieto di vendere azioni a chiunque possieda più del 5 per cento di un titolo, la promessa di immissione di liquidità da parte della Banca popolare cinese e l’invito alle aziende di stato a continuare a comprare azioni sono la prova evidente che il governo (o il Partito, che in Cina quasi coincidono) non ha alcuna intenzione di lasciare che “il mercato si autoregoli”.
Anche le istruzioni date ai mezzi d’informazione parlano chiaro: nessuna speculazione, evitare le analisi approfondite e le interviste agli esperti. Il governo chiede ai suoi cittadini di “assumersi il rischio”. Ma sa bene che se tutti i piccoli investitori si unissero, sarebbero più numerosi dei membri del Partito comunista.
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