In Italia, secondo l’ultima rilevazione Istat, il numero degli occupati è di 22 milioni e 552mila. I dipendenti a tempo pieno e con contratto indeterminato sono 12 milioni, gli occupati a tempo determinato sono 2 milioni e 419mila, mentre la galassia di tutte le altre forme contrattuali (co.co.co., partita iva, co.pro., apprendisti eccetera) regola i rapporti dei restanti 5 milioni e 466mila lavoratori.
I disoccupati, nel terzo trimestre 2014, sono stati 3 milioni e 10mila, ma il dato che fa più impressione è quello degli inattivi in età lavorativa (coloro che il lavoro non possono o hanno smesso di cercarlo) che hanno raggiunto i 14 milioni e 322mila.
È in questo scenario che è stato approvato in via definitiva dal senato il cosiddetto Jobs act, il disegno di legge 1428/2014 che delega al governo l’intervento sulle regole del mercato del lavoro fissandone i contorni, ma rinviando alle decisioni dell’esecutivo i dettagli decisivi.
Il provvedimento, composto da un unico articolo e da 15 corposi commi, si muove su due direttrici esposte con chiarezza dal relatore di maggioranza al senato, il giuslavorista Pietro Ichino, in passato nel Partito democratico e ora in Scelta civica per l’Italia:
Coniugare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive, indispensabile per la competitività delle nostre imprese nell’economia globalizzata, con la massima possibile sicurezza economica e professionale delle persone che in esse lavorano.
Ichino lo definisce un passaggio dalla job property (la proprietà del posto di lavoro) alla flexsecurity (la tutela del lavoratore nel passaggio flessibile da un lavoro all’altro) in una visione che, a dispetto della profonda recessione che colpisce il paese, prevede un mercato del lavoro dinamico ed efficiente che riesca a far aumentare il numero di occupati consentendo alle imprese in crisi di variare senza troppi vincoli il numero di lavoratori alle proprie dipendenze.
Secondo altri il paradigma culturale verso cui ci si dirige è quello della inedita applicazione della sharing economy ai campi del lavoro e del welfare.
Ma era stato lo stesso Matteo Renzi a esprimere, con schiettezza, le intenzioni del governo con Jobs act e incentivi alle imprese inclusi nella legge di stabilità: “Cosa accade di bello? Caro imprenditore vuoi assumere un ragazzo a tempo indeterminato? Ti tolgo l’articolo 18, con il Jobs act, ti tolgo i contributi […] e ti tolgo la componente lavoro dall’irap. E mamma mia… e di più che vuoi?”.
Ecco i punti principali della riforma.
L’articolo 18
Il cuore del disegno governativo è legato al comma 7. Si introduce il principio che il contratto a tempo indeterminato diventa la “forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”. Per arrivare a questo, nei nuovi contratti, si esclude, per chi viene licenziato per motivi economici, la possibilità di essere reintegrato nel posto di lavoro. La perdita dell’occupazione viene compensata da un indennizzo economico crescente con l’anzianità.
Scompare così, nella sostanza, l’articolo 18 introdotto dallo statuto dei lavoratori nel 1970 dopo una battaglia parlamentare che vide l’approvazione di socialisti e democristiani e l’astensione del Partito comunista che lo giudicava troppo morbido e ne chiedeva l’estensione anche alle imprese con meno di 15 dipendenti.
Resta la possibilità del reintegro per i licenziamenti nulli, discriminatori e in alcuni casi (che dovrà fissare il governo) per quelli disciplinari. I più critici verso questo provvedimento ne rintracciano l’ennesima frammentazione all’interno dei luoghi di lavoro destinata ad alimentare diseguaglianze e conflitti tra lavoratori e a far ulteriormente precipitare il livello dei salari.
Demansionamento e giungla contrattuale
Altro elemento di flessibilità nelle mani dei datori di lavoro è l’introduzione del cosiddetto “demansionamento” che però, con una modifica frutto dell’accordo tra maggioranza e minoranza Pd, non modificherà le condizioni economiche del dipendente. Nonostante queste importanti agevolazioni alle imprese, il contratto a tempo indeterminato rischia, comunque, un progressivo accantonamento se non verrà disboscata la giungla di forme contrattuali alternative.
Di questo è cosciente il legislatore che nella delega invita il governo ad eliminare la forma della collaborazione coordinata e continuativa e a semplificare e superare gli altri contratti. Ma su questo tema appare anche contraddittoria la ulteriore recente liberalizzazione dei contratti a tempo determinato che vengono slegati da ogni criterio causale (prima potevano essere adottati solo per esigenze di carattere tecnico, organizzativo o produttivo) e che, con il cambio di mansione, possono essere rinnovati pressoché infinitamente. Inoltre, non aver vincolato le agevolazioni fiscali alla creazione di nuovo lavoro rischia di portare, nella migliore delle ipotesi, alla trasformazione dei contratti da precari a tempo indeterminato e non alla creazione di nuova occupazione.
Ammortizzatori sociali
La legge delega al governo un intervento di riorganizzazione degli ammortizzatori sociali. Si vuole tendere al superamento della cassa integrazione, destinata ora solo ai lavoratori dipendenti coinvolti in crisi aziendali, a favore di una indennità di disoccupazione generalizzata e legata alla storia contributiva del lavoratore. La rimodulazione dell’assicurazione sociale per l’impiego (aspi) viene anche estesa ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Secondo uno studio dell’Associazione XX Maggio, però, quest’ultima misura non cambierebbe di molto la situazione dei lavoratori atipici: “L’universalizzazione degli ammortizzatori sociali, sarà estesa solo ad altri 46.577 collaboratori coordinati e continuativi […]. Rimangono esclusi circa trecentomila lavoratori parasubordinati e a partita iva iscritti alla gestione separata, i lavoratori autonomi iscritti all’ex Enpals e tutti i liberi professionisti”.
L’estensione degli ammortizzatori sociali è ovviamente legata alla relativa copertura economica. L’aumento di questa copertura è stato uno degli elementi che hanno consentito un accordo tra maggioranza e minoranza Pd, ma restano ancora da reperire ulteriori finanziamenti.
Servizi per l’impiego
Nel modello flessibile introdotto dal Jobs act diventano decisivi i servizi per l’impiego destinati a far incontrare domanda ed offerta di lavoro e tutte le strutture destinate alla formazione e riqualificazione dei lavoratori in cerca di occupazione. Nel riordino del settore, finora in balia di una cronica inefficienza, la legge dispone la creazione di un’agenzia nazionale per l’occupazione e promuove una sostanziale equiparazione dei servizi di collocamento pubblici e privati.
L’idea, che appare innovativa, ma che dovrà essere ben governata, è quella di introdurre anche un voucher, finanziato dalle regioni e spendibile dal lavoratore in una delle agenzie di collocamento accreditate, che lo potranno però incassare solo se riusciranno effettivamente trovargli un lavoro. Questo dovrebbe stimolare la concorrenza nel settore creando una selezione naturale tra agenzie efficienti e non. Al governo toccherà anche sciogliere l’intreccio di competenze tra agenzia nazionale ed enti locali.
Queste novità sui servizi per l’impiego sono state analizzate da un rapporto di Moody’s che prevede per i maggiori operatori del settore del lavoro interinale, Adecco e Manpower, un notevole aumento dei profitti e “un ruolo sempre più ampio nel mercato del lavoro italiano dove, finora, questo tipo di intermediazione rappresentava lo 0,9% contro una media dell’Unione europea dell’1,6 per cento”.
Maternità e dimissioni in bianco
Le ultime deleghe al governo sono finalizzate alla tutela delle lavoratrici con un percorso di estensione della maternità a tutte le categorie di lavoratrici. Previste anche norme per conciliare i tempi di lavoro con la vita familiare e l’introduzione della possibilità di congedi per le donne vittime di violenza.
Con un intervento della commissione lavoro alla camera, inoltre, si vincola il governo a fissare “modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni” per contrastare il fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco fatte firmare soprattutto alle lavoratrici e attivate in occasione della maternità.
Il 25 marzo alla camera era stata approvata la legge contro questo fenomeno, ma era stata bloccata in senato dall’opposizione del Nuovo centro destra e del Movimento 5 Stelle, ora sarà il governo a pronunciarsi. Per contrastare violazioni di questo tipo, oltre al lavoro nero e alle altre inadempienze verrà anche creata l’agenzia unica per le ispezioni del lavoro.
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