La scienza ha una qualità formidabile. Non conosce le espressioni “è troppo tardi” o la rassegnazione di chi si chiede “cosa possiamo fare con così poche risorse davanti ai giganti del mondo”. La senatrice Elena Cattaneo ha concluso così il suo intervento in aula in occasione della discussione del disegno di legge connesso al recepimento della direttiva europea 2015/412, ovvero quella che lascia gli stati liberi di scegliere se coltivare organismi geneticamente modificati oppure no.
In particolare, Cattaneo ha commentato la raccomandazione di promuovere la ricerca scientifica sugli ogm. Per la scienza sono più importanti l’intelligenza e l’ingegno della forza, ha sottolineato, augurandosi (augurandoci) il sostegno politico alla ricerca pubblica.
Non siamo molto abituati a discorsi come quello di Cattaneo. Ma se facciamo uno sforzo, potremmo avere una buona occasione per imparare qualcosa. Non solo sugli ogm ma anche su come si dovrebbe organizzare un discorso e sui motivi invocati per vietare qualcosa (la sperimentazione, l’uso di alcune sostanze o altre attività).
Cattaneo ha ricordato come sia difficile parlare di ogm, perché alla sola parola si sollevano proteste e condanne irrazionali: fanno male (mai dimostrato), contaminano le coltivazioni “tradizionali”, sono figli di multinazionali (le stesse che producono anche ciò che non è geneticamente modificato).
Andiamo con ordine. Il primo luogo comune da eliminare è la convinzione che quanto è modificato sia cattivo e dannoso. L’agricoltura tutta è intervento manipolatorio nei confronti della natura – che non è per niente bella e buona intrinsecamente come vorrebbe farci credere chi non ha mai passato più di due ore in un parco. L’agricoltura naturale è un ossimoro e la natura, in generale, non è garanzia di superiorità morale o di altro genere.
Le biotecnologie oggi ci permettono di fare meglio e in modo più sicuro quanto si è sempre fatto. La ricerca pubblica è fondamentale, e le ragioni dovrebbero essere ovvie.
È difficile avvicinarsi agli ogm senza inciampare nelle molte contraddizioni italiane: si vieta di sperimentare anche se le procedure sono sicure (“vietare la ricerca è come censurare la libertà d’espressione”, ha detto Cattaneo), si vietano le sperimentazioni in campo senza alcuna ragione razionale ma poi mangiamo e importiamo ogm.
Non è assurdo? Li mangiamo ma non possiamo studiarli. E se fossero così dannosi per la salute, non sarebbe meglio studiarli e non ingollarli?
La paura per il monopolio poi alimenta un’altra stranezza: non investendo nella ricerca pubblica si lascia tutto lo spazio a quella privata (alle temute multinazionali, che poi sono anche quelle che producono e monopolizzano i semi non geneticamente modificati).
Il sospetto verso gli ogm, poi, è così forte che si trascura di dire come le biotecnologie potrebbero essere utili a preservare alcuni prodotti tipici – proprio quelli in nome dei quali spesso si condannano gli ogm – aggrediti dai parassiti.
Cattaneo ha citato il caso di un ogm pubblico per combattere un fungo responsabile della più diffusa malattia delle mele (la ticchiolatura), contro cui vengono usati pesticidi, cioè sostanze chimiche. E questo vale anche per le mele “biologiche”. Non sarebbe utile trovare un modo per evitare la malattia e i pesticidi?
Questa è la storia di Silviero Sansavini, che scopre che c’è una mela selvatica resistente alla malattia grazie a un gene. I tentativi di incrocio tra mele resistenti e mele “deboli” falliscono perché anche altri geni si trasferiscono e l’effetto voluto viene alterato. All’inizio degli anni novanta Sansavini, in un laboratorio pubblico, prende una mela Gala (tra le più amate anche se trattata chimicamente) e ci impianta quell’unico gene che la rende immune dal parassita.
Quella mela “cisgenica” (cioè con un gene introdotto proveniente da un’altra mela, quindi dalla stessa specie) è stata un successo mondiale. Non ha bisogno di pesticidi. Dobbiamo averne paura? Vietarla per legge? Preferirle i pesticidi?
Sembra paradossale, ma la strada scelta dall’Italia in questi anni è proprio questa: averne paura, vietare. Dal 2002 il ministero dell’agricoltura ha vietato la sperimentazione in campo aperto. La mela di Sansavini, intanto, cresce nei Paesi Bassi e in Svizzera.
Indagare e non vietare
Ovviamente non è l’unico caso, ma elencarli non farebbe che ripetere lo stesso meccanismo e la medesima assenza di ragioni per il divieto e la fine della ricerca decisa dalla politica e sostenuta da un’avversione istintiva e infondata. Sembra un paradosso agronomico degno del Comma 22, ma è la nostra politica agricola.
Un clima generale di terrore che a volte ha portato anche alla devastazione dei campi o a incendi, come nel caso dei ciliegi di Eddo Rugini, che hanno distrutto decenni di sperimentazione.
I timori non andrebbero alimentati o seguiti ciecamente, ma indagati e sedati in assenza di prove di pericolosità. Anche la paura di contaminazione potrebbe essere placata se si conoscessero i protocolli rigorosi che riducono praticamente il rischio a zero. Se si conoscesse cosa accade altrove e come si sperimenta senza che vi siano conseguenze pericolose per la salute o per i campi coltivati diversamente.
Per rimediare a questa stagnazione rischiosa e involutiva, Cattaneo ha sottolineato che basterebbe davvero poco. Basterebbe, per cominciare, accogliere la raccomandazione europea e sostenere la ricerca pubblica. Non sarebbe solo importante per la scienza, ma pure per l’economia e la competitività in un settore in cui l’Italia ama vantare un primato che rischia di ridursi a una facciata da esposizione.
(L’ordine del giorno, firmato anche da Luigi Zanda, Paolo Romani, Renato Schifani, Emilia De Biasi, Roberto Formigoni e Laura Bianconi è qui; il testo definitivo ha subìto una modifica rispetto alla richiesta di impegno governativo come segue: al posto di “identificare (con tempi certi) i siti regionali di sperimentazione, prevedendo in caso di inerzia specifiche modalità di surrogazione decise a livello centrale” nella versione definitiva c’è “individuare sul territorio dei campi sperimentali di interesse nazionale, differenziati in modo da poter rappresentare le differenti aree climatiche del paese”).
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