Il 5 giugno la corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha autorizzato la sospensione della nutrizione e dell’idratazione artificiali di Vincent Lambert, un cittadino francese di 39 anni. Con 12 sì e 5 no i giudici hanno confermato l’autorizzazione da parte del consiglio di stato francese dell’anno scorso.
Nel comunicato stampa ufficiale viene ricostruita la vicenda di Lambert e vengono spiegate le ragioni per cui la corte ha deciso di confermare la sospensione.
Lambert ha un incidente nel 2008. Rimane tetraplegico. Nel 2011 la sua condizione è giudicata di minima coscienza e nel 2014 come vegetativa. All’inizio del 2013 i medici avviano le procedure per interrompere i trattamenti che lo tengono in vita (secondo la legge francese del 2005 conosciuta come legge Leonetti) in accordo con la moglie Rachel. La data prevista è il 10 aprile 2013. Ma il giorno prima, i genitori di Lambert, un fratellastro e una sorella si oppongono.
Il medico che aveva proposto l’interruzione dei trattamenti ne consulta altri sei (tre di un altro ospedale) e incontra i familiari. La moglie e altri fratelli di Lambert sono favorevoli alla sospensione.
Il consiglio di stato, nel 2014, aveva risposto tenendo conto della legge Leonetti: per decidere se sospendere o no i trattamenti bisogna valutare le condizioni cliniche di ogni paziente e il contesto specifico di ciascuno. Non solo gli aspetti medici, insomma, ma anche gli eventuali desideri espressi (nell’impossibilità di esprimerli oggi a causa delle condizioni cliniche). Le decisioni dei medici di Lambert, secondo il consiglio, erano state corrette, considerando la diagnosi del danno cerebrale irreversibile e la prognosi di non miglioramento.
In altre parole, i danni cerebrali sono gravissimi e senza rimedio. Dal punto di vista medico, dunque, sembra irragionevole proseguire i trattamenti. Sembra anche che Lambert avesse dichiarato di non voler essere tenuto in vita artificialmente – così hanno riferito la moglie e uno dei fratelli.
Il 5 giugno la corte ha dichiarato che non c’è alcuna violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani, ovvero del diritto alla vita, né dell’articolo 3, il divieto di non essere torturati e trattati in modo degradante, o di altri articoli che i genitori avevano cercato di invocare per opporsi all’interruzione.
Alcuni dei passaggi sono particolarmente importanti e in grado di anticipare o di rispondere a eventuali obiezioni.
Si ricorda che una simile decisione medica non ha tanto l’intento di mettere fine alla vita di Lambert, ma di interrompere un trattamento che è stato rifiutato dal paziente o che, secondo i medici, costituisce una forma di irragionevole ostinazione e appare sproporzionato. Per quale ragione si dovrebbe proseguire un trattamento inutile?
La corte osserva anche che la legge Leonetti non autorizza l’eutanasia o il suicidio assistito, ma permette ai medici di non proseguire una terapia irragionevole – una distinzione che può essere giudicata moralmente pretestuosa o ipocrita, ma che dal punto di vista medico ha perfettamente senso.
Il consiglio aveva dato la stessa interpretazione. È importante rilevare come si ribadisca che la nutrizione e l’idratazione artificiali debbano essere considerate trattamenti medici, come ha poi fatto anche la legge francese sulla sedazione profonda lo scorso marzo e com’è corretto fare.
Il caso di Lambert, molti hanno già commentato, ricorda quello di Eluana Englaro. Anche se in quel caso non c’erano litigi familiari e non c’erano foto dopo l’incidente. Chissà se qualcuno si è chiesto cosa avrebbe voluto Lambert: essere mostrato in queste condizioni o essere protetto?
Beppino Englaro aveva deciso di non mostrare nessuna foto della figlia e sicuramente la sua decisione aveva reso più difficile far capire a molti in che condizione fosse (con il sondino nasogastrico e gli effetti di anni e anni di immobilità). Di Lambert ci sono le foto e i segni della sua condizione sono ben visibili.
In entrambi i casi, l’unico aspetto difficile è la ricostruzione della volontà di Lambert e di Englaro in assenza di una dichiarazione scritta. In entrambi i casi, però, avrebbero espresso la volontà di non essere mantenuti in vita in condizioni di mera sopravvivenza.
È evidente che tenerli in vita non sia una decisione moralmente e intrinsecamente preferibile (in entrambi i casi, la prognosi era di impossibilità di cambiamento della condizione clinica gravissima). All’inutilità del trattamento medico si somma la presunta volontà del diretto interessato. In nome di cosa si dovrebbero proseguire le terapie?
La sospensione dei trattamenti dunque non è un gesto di cattiveria, di disinteresse o di “egoismo”. Non è nemmeno “far morire di fame e di sete” o decidere di far morire “un uomo handicappato ma non in fin di vita”. Tutte queste obiezioni sono simili a quelle elencate ai tempi di Englaro e muovono dal non aver capito la diagnosi e dal non aver letto i documenti della corte in cui la condizione clinica di Lambert è spiegata in modo chiaro e comprensibile per tutti. L’indifferenza verso l’autonomia e l’autodeterminazione – pur in una condizione in cui devono essere ricostruite e non sono espresse attualmente – costituisce l’ultimo frammento di un quadro ferocemente paternalistico, della presunzione di decidere al posto degli altri mascherata da difesa della vita o da diritto alla vita, mentre in realtà quello che si sostiene è il dovere alla vita, intesa in questo caso come sopravvivenza quasi solo biologica, anche quando (si ipotizza che) il paziente non avrebbe voluto vivere così.
Ricordiamo che in Italia non esiste una legge sulle direttive anticipate e che una legge di iniziativa popolare sull’eutanasia giace in parlamento da due anni senza essere stata mai calendarizzata (qui il testo del Progetto di legge d’iniziativa popolare rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia).
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