Probabilmente Maccio Capatonda lo conoscete. Se non avete visto nessuno dei suoi programmi televisivi, tipo la sitcom Mario, sicuramente avete almeno presente su YouTube uno dei suo finti trailer. Tipo: Vedo la gente scema, L’uomo che usciva la gente, Giammangiato, che hanno poco più o poco meno di un milione di visualizzazioni, o Sossoldi che ne ha più di tre milioni.
Un paio di giorni fa è uscito al cinema, in quattrocento sale, il suo primo film, Italiano medio, in cui Capatonda è attore, sceneggiatore e regista. Insieme a lui c’è il suo staff di autori (Marco Alessi e Sergio Spaccavento ) e soprattutto tutta la sua banda di caratteristi: l’idiotissimo Luigi Luciano conosciuto come Herbert Ballerina, il malvagio Franco Mari-Rupert Sciamenna, lo strampalato Enrico Venti-Ivo Avido eccetera.
Italiano medio aveva tutte le premesse per incoronare Marcello Macchia, in arte Capatonda, trentaseienne abruzzese di Vasto, quale stella della comicità italiana. Una maschera perfetta della mediocrità strapaesana: sgangherata, ipertelevisiva, cafonissima. L’italiano medio, quello di Sordi, Villaggio, Verdone, Zalone, nella sua versione demenziale.
E invece, e purtroppo, il film di Capatonda è brutto. Parecchio brutto. Mal pensato, mal scritto, mal diretto, mal interpretato.
L’errore principale è stato quello di immaginare che un’idea buona per uno sketch di due minuti potesse reggere un film di un’ora e mezza.
Un nerd ecologista, Giulio Verme, uno che si batte per difendere un parco dalle speculazioni edilizie, uno felicemente sposato con una ragazza impegnata nel volontariato, un giorno in cui è giù di morale incontra un vecchio compagno di scuola che gli offre una pillolina.
“Sai quella storia che usiamo solo il 20 per cento del nostro cervello? Con questa pillola usi solo il 2 per cento”.
Prima di rendersi conto di averla buttata giù, Giulio Verme si è già trasformato in un bruto: con lo sguardo perso nel vuoto, s’infila una canotta leopardata e diventa uno che pensa solo a scopare, a ruttare, a guardare la televisione, e andare in giro in macchina con la radio a palla: l’italiano medio. Comincia una relazione con la vicina di casa (una panterona che fino a un secondo prima aborriva), si compra tre megaschermi televisivi da piazzare davanti al divano, va a rota dell’ultimo talent…
Prosciugata oltre ogni limite quest’ideuzza (lo pseudointellettuale che diventa un supercoglione), Italiano medio arriva a quarantacinque minuti scarsi. E quindi? E quindi la seconda parte del film è l’accozzaglia di altre due, tre ideuzze gonfiate: una specie di thriller ecologista, la storia di Giulio Verme bruto che si presenta lui stesso al talent, la lotta intra-psichica tra i due Giulio Verme (il nerd e lo scemo) realizzata come una specie di cartoon, la parodia di un altro talent ecologista… Niente di tutto questo funziona se non per trenta, quaranta secondi di seguito.
Il pubblico in sala ride poco. Ride alle strizzatine d’occhio e alle battute da terza media, evidenziando il grosso problema del film: per essere demenziali sulla lunga distanza bisogna essere molto intelligenti. Ossia bisogna avere un mondo (e non dei tic, dei microaspetti sociali) da rovesciare, da rendere surreali. La lezione dei Monty Python ma persino degli Squallor è che per essere demenziale non si può fare comicità sociale, ma bisogna avere un approccio metafisico, altrimenti si rischia la parodia formato caricatura.
In questa parodia l’accumulo risulta puerile: “tratto da una storia finta”, “un film scritto da cinque persone e un autore”, “i pannelli solarium”, “lo scrittore Roberto Salviamolo”, “Just Caviale” (invece di Just Cavalli), “il Corriere della Serra”, “il calciatore Alessandro Del Pirlo”, “abita in Via del Tutto Eccezionale”… I giochi di parole funzionano se l’intero mondo è sottosopra, se no sono solo solletico.
C’è una scena alla fine in cui Giulio Verme è ricoverato, stordito, incerto della sua identità, in ospedale. Ai piedi del letto c’è un nugolo di giornalisti (tra cui un imbarazzato e imbarazzante Andrea Scanzi che ha deciso di fare un inutilissimo cameo) e poi il medico interpretato da Nino Frassica. Il minuto di Nino Frassica, la sua comicità stralunata, i suoi tempi, i suoi giochi di parole che non sono ammiccamenti ma un linguaggio a sé, mostrano per contrasto tutta la debolezza di Maccio Capatonda.
Una debolezza che non è dissimulata neanche con altri stratagemmi:
la voce off che racconta la storia dall’inizio non è usata in modo dialettico, per far ridere per contrasto (tipo Provaci ancora Sam per capirci), ma le caratteristiche ridicole della storia di Giulio Verme vengono tutte strasottolineate;
la recitazione dei personaggi è sopra le righe, e il risultato è che sembrano tutti uguali: stonati, estraniati, pagliacceschi;
l’unico personaggio che recita in modo più o meno realistico è Franca, la fidanzata di Giulio, il che la rende un personaggio completamente estraneo;
la caratterizzazione delle due anime di Giulio man mano si rivela scontata. Per esempio, Giulio il nerd non dice parolacce, ma alla quarta (se non alla prima) volta in cui dice “Scusa il pene” invece di “Scusa il cazzo”, veramente è difficile strappare una risata;
Eccetera.
Inoltre la regia è un vero disastro. La regia da videoclip se funziona la prima o la seconda volta per creare uno spiazzamento alla terza, la quarta, l’ennesima volta finisce col non rendere credibile né coerente il film stesso se non come playlist di YouTube. Poi, metà del film è composto da inquadrature di faccioni ripresi con il grandangolare: anche qui capite bene che se un paio di volte può dare un effetto cartoonesco e comico, a lungo andare stanca.
Anche la fotografia è frutto di scelte troppo elementari. Giulio nerd=fotografia asettica (leggi: brutta, da fiction Rai); Giulio bruto=fotografia con colori saturi. Questo effetto ha il sapore di una battuta, e come tale anche qui funziona la prima volta, non se ripetuto a esaurimento.
Il montaggio, nonostante la maestria di Giogiò Franchini, è una sovrapposizione riempita senza vuoti, momenti di pausa, chiaroscuri, come se si avesse paura di lasciare lo spettatore a se stesso per più di un secondo, una paura da ritmo televisivo e non cinematografico.
Insomma un brutto film, un film non divertente, di un artista come Maccio Capatonda che invece il talento ce l’ha. E che ha soprattutto una sua idea di comicità, come si può ascoltare in quest’intervista.
L’impressione che uno spettatore ben disposto ne ricava è che l’Italia negli ultimi vent’anni sia stata devastata da una dealfabetizzazione comica. Il linguaggio comico dovrebbe essere patrimonio comune di un intero paese, oggi è facile constatare il contrario.
È praticamente impossibile trovare un film che faccia ridere tutti, ossia un codice comico condivisibile, e così i produttori esasperano le differenze per le diverse categorie di pubblico. Invece di far diventare Capatonda un Totò o almeno un Checco Zalone, lo lasciano assomigliare a se stesso, a replicare le sue performance televisive, in modo da assicurarsi il riconoscimento e il pubblico che già ha. Per altri tipi di pubblico ci sarà Alessandro Siani o la commedia di Francesca Archibugi.
E in questo senso, assegnando a ogni pubblico un codice e un certo tipo di prodotto, la capacità inventiva e persino politica della comicità diventa, veramente e purtroppo, una piccola cosa molto innocua.
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