Quando qualche giorno fa sono arrivato al botteghino di Ticket One davanti al Palalottomatica di Roma per ritirare (dopo mezz’ora di una fila strapazzata da un vento polare che s’infilava tra le colline dell’Eur nel giorno romano più freddo dell’anno) il biglietto che avevo comprato online per il concerto di Violetta, la tizia gentile dall’altra parte del vetro ha controllato i dati e il documento e poi con tono di perplessità mi ha chiesto: “Uno?”.
L’ho realizzato di lì a poco, entrando nel palazzetto: è probabile che io sia stato l’unico spettatore non accompagnato o non accompagnante delle circa 50mila? 80mila? centomila? Persone che hanno visto un suo concerto nel tour italiano (Firenze, Milano, tre date a Roma con due spettacoli al giorno, l’Arena di Verona) o che lo vedranno domani sera all’Adriatic Arena di Pesaro.
L’eccezione, l’intruso, il non-adepto di un insieme che non si può definire semplicemente una normale comunità di fan, e che non ha nemmeno i caratteri di una tifoseria o di una setta religiosa, ma è qualcosa che somiglia più a una etnia transnazionale piuttosto numerosa. I V-lovers, come si autodefiniscono.
Chi conosce Violetta sa di cosa parlo. Perché chi conosce Violetta ha alcune caratteristiche certe: 1) è una bambina dai 4 o i 10 anni, oppure è genitore, zio/a, nonno/a di una bambina di quell’età lì; 2) vive in uno qualunque tra i paesi sviluppati del mondo occidentale (il telefilm, lo sceneggiato, la teen-soap – chiamatelo come volete – di Violetta è trasmesso in 45 paesi); 3) da tre anni – da quando cioè è andata in onda la prima stagione– la sua esistenza è completamente cambiata.
Non solo infatti sarà coinvolto, appassionato, alle vicende della serie; ma di certo la sua vita sarà, per così dire, totalmente violettizzata. I suoi orari saranno regolati sulla messa in onda del programma, il suo calendario di feste – compleanni, carnevali, natali – sarà condizionato dall’impegno a organizzare un party con qualche animatrice che interpreti Violetta, a ordinare una torta con Violetta sopra, a mascherarsi da Violetta, a comprare regali che abbiano a che fare con Violetta. In questo modo è facile che la casa di questo/a V-lover si sia riempita di ogni genere di oggetti brandizzati: diari, astucci, cartelle, calendari (ovvio). Ma anche: magliette, pantaloni, scarpe, cappelli, cuffie, karaoke, profumi, lenzuola, coperte, accappattoi, dentrifici, spazzolini, stereo, biciclette, macchine da cucire, letti…
Se non focalizzate cosa vuol dire tutto ciò, potete vedere uno dei vari filmati su YouTube, che s’intitolano tipo “le mie cose di Violetta” (107mila visualizzazioni) o “i miei oggetti di Violetta” (628mila visualizzazioni), “La mia collezione di cose di Violetta” (681mila visualizzazioni) o anche “Le mie nuove cose di Violetta” (187mila visualizzazioni) o “Le mie uova di Pasqua di Violetta” (410mila visualizzazioni).
Chi invece non conosce Violetta può mettersi una mano sulla coscienza e sapere di far parte di una minoranza: snob? emarginato?
Per rimediare, può almeno farsi un’idea a partire da alcuni dati essenziali: tre anni fa due tizi (di cui non si trovano praticamente dichiarazioni o interviste), Solange Keoleyan e Sebastián Parrotta, s’inventano per la Disney l’idea di un prodotto tv per preadolescenti, una cosa a metà tra una soap classica, un telefilm e un programma musicale vagamente ricalcato su un talent.
Il plot prevede una serie di ragazzi, dai quindici anni in su più o meno, che si ritrovano a frequentare una scuola di musica e arti varie: una specie di Saranno famosi ma infantilizzato e telenovelizzato. È girato in Argentina, recitato in spagnolo, ma da subito è stato pensato come un prodotto globale già pronto per essere esportato.
Per esemplificare, potete vedere da voi una puntata a caso, bastano cinque minuti.
Cosa c’è qui dentro? Violetta naturalmente, molta, tantissima Violetta. Ossia una biondina sempre solare, che canta tanto e bene, che tutti i maschi desiderano e di cui tutte le femmine sono amiche (tutte tranne la perfida Ludmilla); i suoi amici che organizzano feste e chiacchierano di compiti da fare; suo padre bonario ma geloso a tal punto da mascherarsi da insegnante per controllarla a scuola; e un po’ di beghe di adulti (genitori e insegnanti).
Come capita nelle soap, le relazioni sono elementari – cattivi e buoni, impermalosimenti e parole care, corteggiatori che si avvicendano, screzi e riappacificazioni – ma, come è immaginabile e al tempo stesso straniante in una soap per bambine, questa elementarità è ancora più elementare delle normali soap.
Non solo gli attori è come se sillabassero le frasi e mettessero dei punti esclamativi in fondo a ogni battuta, ma tutta la gestualità è una sorta di sottolineatura iconica di quello che viene pronunciato.
Guardare una puntata di Violetta per un adulto è per certi versi come guardare un corso base di lingua ma della tua lingua.
Ma non tutti gli adulti devono pensarla così. Quelli con cui chiacchiero nelle tre ore di attesa preconcerto mi confessano bene o male concordi che anche loro seguono Violetta con le figlie (figlie. Notazione fra parentesi ma da tenere bene in mente: non c’è nessun bambino maschio presente al Palalottomatica, non c’è nessun bambino maschio che segua il programma tv, il mondo di Violetta è l’universo più separatista che abbiate mai conosciuto).
Una cinquantenne ipereccitata di Potenza con una felpa con il faccione di Martina Stoessel (l’attrice che interpreta Violetta) evangelizza me che sono profano: “Sono storie di ragazze che non mollano mai”. Un’altra donna di San Giorgio a Cremano che dev’essersi fatta il capello stamattina, forse per l’occasione, perché ha ancora l’odore viscoso del parrucchiere: “Violetta ha un pregio, trasmette tanta tenerezza”.
I personaggi della teen-soap sono equiparati spesso a una sorta di fonte di energia buona. “In fondo trasmettono valori positivi”, mi fa una madre vestita in una specie di tailleur (a un concerto?). Una sua amica – di Castellammare di Stabia, lei è di Gubbio: si conoscono da anni, si sono riviste con la scusa del concerto – precisa: “Non è mai volgare, trasmette pulizia”. Entrambe ci tengono a spiegarmi che loro si fidano di lasciare le loro figlie davanti alla tv senza che debbano controllarle. “E poi a me piace il padre, me la vedo pure per quello”.
Qualche genitore ha in testa la fascia che fuori i rivenditori napoletani vendono a cinque euro e dentro a dieci, qualcuno indossa la maglietta del merchandising originale di Violetta o il cappello con gli strass; tre, quattro mamme insistono perché, visto che sembro aggirarmi tra le file del Palalottomatica abbastanza disinvolto, gli procuri un pass per il dopoconcerto; un padre cinquantenne ci tiene a dire la sua se gli assicuro che andrà a finire scritta su un giornale: “È il secondo concerto che mi faccio, siamo venuti anche l’anno scorso. E stavolta ho pagato 90 euro, ma c’erano anche i biglietti a 250 euro. Se tu vuoi stare davanti nelle prime file paghi 250 euro. E se invece vuoi andare nel backstage prima del concerto, a farti le foto con gli attori, puoi sganciare 500 euro. È una roba ingiusta. Uno lo fa per i figli. Ma così non si può. Io questi spettacoli me li vado a vedere tutti. Fatti bene, è vero. Ma così è troppo!”.
Un altro padre, romano di Garbatella, si è truccato con il rossetto e la matita e si è stampato sulla guancia sinistra il tatuaggio delebile con la firma di Violetta (“Lo faccio per fare contenta mia figlia”; del resto questo è il mantra valoriale che mi viene propinato in varie salse, tra cui “mi ha costretto a mettere Sky” o “io il biglietto gliel’ho regalato a Natale nascosto nel panettone Balocco di Violetta, la sto accompagnando perché lei è felice”).
Il tatuaggio, poi mi spiega sua figlia, “si fa con uno stampo, lo inzuppi con una spugnetta viola, e poi devi premere”. Questo papà sembra abbastanza contento di stare qui: insieme alla moglie ammette che a casa non riescono più a guardare un telegiornale – “Dalle sette e mezza alle otto e mezza c’è solo Violetta” – e ritiene che il successo della trasmissione sia dato dai colori – “come per i Barbapapà, come per i Teletubbies: so’ i colori, ai ragazzini je piacciono i colori”.
Appena la figlia si mette a cantare En mi mundo però mi fa segno di avvicinarmi: “Abbassate e te dico… Comunque, diciamocelo, è ‘na mezza zoccoletta… Prima sta co’ Tomas poi sta co’ Leon… se li passa tutti… li molla… ce se rimette…”.
Sta di fatto che le idee che hanno gli adulti su Violetta sono pronunciate appunto sottovoce, quasi con pudore. Quando gli chiedo un parere, mi indicano le figlie: sono loro le esperte. Ed effettivamente queste bambine alte un metro, un metro e qualcosa, hanno le idee ben chiare. Quando a Giulia (6 anni, quattro incisivi in meno) domando cos’è che le piace di Violetta, mi risponde: “Tre cose. È bella, canta benissimo, ha stile”.
“In che senso stile?”
“Lo stile nello scegliere i vestiti, sa associare bene gonnelline e borsettine”.
Anche la sorella Carla ci tiene a concordare che Violetta è bellissima, come Leon del resto (“perché ha il ciuffo e gli occhi azzurri”).
“È bella”, “È bellissima”, lo dicono tutte le ragazzine con cui parlo. E tutte – magari qualcuna ci pensa un secondo in più, qualcuna è istantanea – “vorrebbero essere Violetta”. Per questo sono vestite tutte coloratissime, per questo indossano la sua canottiera e le sue mutande (le fermo, anche se un paio di genitori insistono nel volermele mostrare, come a dire: non gli abbiamo fatto mancare nulla eh, poi non si dicesse…), e ripetono quasi a memoria gli elementi fondanti di questa cultura V-lover, identificando di fatto le vicende del personaggio e la vita dell’interprete Martina Stoessel, di cui ho appena finito di leggere, per prepararmi al concerto, l’autobiografia: Semplicemente Tini (Salani, 15,90 euro).
Ecco, a pagina 23 c’è un passaggio da meditare:
“Mi ricordo che a sette anni, durante un saggio, guardavo tutto il tempo le compagne che avevo di fianco. Allora, in un momento in cui ero scesa dal palcoscenico, mia nonna Luisa mi si avvicinò e mi disse: ‘Quando sei in scena non devi guardare le altre, devi guardare te stessa o davanti. Trasmetti quello che vuoi o che puoi ma non ti vergognare’. Le sue parole le ho fatte mie, e da quel giorno cerco sempre di essere me stessa”.
In realtà, a leggerlo bene, il consiglio della nonna era relativo solo al palcoscenico. Ma è chiaro che la vita di Martina Stoessel ha da sempre coinciso e coincide con il palcoscenico. Le differenze tra lei e Violetta – stando a quel che dichiara in Semplicemente Tini – è che lei è “più rock” e il personaggio “più romantico”: ossia preferisce qualche borchia a qualche plisse.
Per il resto i valori dell’una coincidono con i valori dell’altra: essenzialmente non molti.
Sorridere sempre: ed è veramente impossibile scovare un’espressione di Violetta o Martina non dico disperata o angosciata, ma anche semplicemente cupa o riflessiva. (“Lei è bellissima, sorride sempre”).
Crederci sempre: ossia non contemplare mai l’ipotesi del fallimento, non immaginare neanche che sia possibile che dal fallimento si impari qualcosa: per esempio a capire qual è la propria vocazione, ma anche semplicemente si possano fare i conti con la nostra natura finita, fallibile.
E certo, come dicevamo sopra, essere sempre se stessi.
Questa morale, soprattutto per delle ragazzine di sei-dieci anni a cui stanno cadendo i denti da latte o si stanno allungando le ossa, a ben pensarci, ha un che di inquietante. Una bambina di sette anni dovrebbe essere se stessa? In che senso? Dovrebbe rimanere inchiodata come Violetta e i suoi amici in questo universo in cui cambia qualche colore ma tutto rimane identico?
Alla fine di ogni chiacchierata con le piccole fan, faccio una domanda quasi diabolica: “Cosa farete quando Violetta finirà?” (si vocifera, tra l’altro, che questo sarà l’ultimo tour e l’ultima stagione: Martina Stoessel compirà 18 anni a marzo e, nonostante l’aspetto infantile, è difficile renderla credibile come Violetta per un altro anno).
Rachele, 8 anni, mi risponde: “Mi sono registrata tutte le puntate, me le rivedrò tutte sempre”.
Annalisa, 6 anni e mezzo: “Ci annoiamo, stiamo a casa tristi”.
Bianca, 7 anni: “Mi vedrò Cata e i misteri della sfera”.
Per molte altre è una prospettiva alla quale è meglio non pensare: “Io amerò Violetta tutta la vita” (Katia, 9 anni).
Questa indagine sulle V-lovers viene, a dire il vero, stoppata in un modo un po’ brutale da un addetto alla security. Mentre Sabrina (7 anni) mi sta rivelando che a pensarci un po’ c’è qualcosa che non le piace di Violetta (“Mente. Una volta ha detto che aveva il mal di gola e invece non era vero”), un tizio grosso, alto uno e novanta, capelli da heavy-metal, mi chiede se può interloquire con me un secondo, e secco mi dice che se non ho l’accredito da giornalista non posso rivolgere domande al pubblico come ho fatto finora: “La produzione ti vuole parlare”, tronca le mie rimostranze.
E io immagino già scenari alla Grande Lebowski versione Disney. Una stanza insonorizzata, e un culturista con la maschera gommosa di Pippo che mi pressa: “Allora, hai finito di fare le tue osservazioni sarcastiche su Violetta? Non vedi come la gente si diverte? Ti vuoi divertire anche tu o ti dobbiamo far andare storta la serata?”.
Io obietto al tizio della security che mi sono pagato il biglietto come un qualunque spettatore perché non mi interessava avere a che fare con la produzione, i cantanti, gli uffici stampa, ma volevo porre qualche interrogativo molto innocuo alle famiglie del pubblico, chiacchierare, curiosare. Discutiamo, esponiamo le nostre posizioni teoriche sul giornalismo contemporaneo e i suoi metodi, ribadiamo entrambi più volte un’affermazione che sappiamo falsa: “No, ma io rispetto il tuo lavoro…”, e la discussione va talmente per le lunghe e diventa così astratta che alla fine il concerto sta per iniziare. Le urla delle sei-, sette-, otto-enni, si fanno stridenti come un fax universale sul punto di rompersi, e formano una specie di unico gridolino strizzato (un gridolone, verrebbe da dire) che a ogni segno che Violetta, Leon, Ludmila, eccetera… stanno per entrare in scena, diventa più acuto e definitivo e compatto: la nota diabolica che non avevo mai udito prima d’ora e forse non udrò mai più che possono fare cinquemila bambine tutte all’unisono. Una iiiiii prolungata oltre l’umano.
E poi arriva Violetta.
Ossia: una ragazzetta bassetta – uno e sessanta, direi, non di più – adeguatamente fornita di scarpe con superzeppe (a cui non rinuncerà per tutto il resto del concerto) che comincia a canticchiare, ballicchiare, e parlicchiare in un italiano che è la caricatura dei cantanti che fanno la parodia dei cantanti in Italia: “Ciao Roma, come stati?”.
Coreografie niente di che, cambi di vestiti ogni tre minuti, scenette puerilissime ogni tanto tra una canzone e l’altra, scenografie gonfie e spettacolari che ricordano ogni possibile immaginario giovanile (anni ‘60, rap, tecnologia, romanticismo, eccetera…): le V-lovers – anche quelle vicino a me (che sono veramente lontane dal palco) salutano per tutte le quasi due ore Violetta, lo fanno discretamente, ciao ciao con la mano (non l’ho detto, ma ovviamente: siamo tutti seduti), imitando, credo, la loro stessa idea di fare le spettatrici di un concerto.
Martina Stoessel è una strana specie di star da palco, non è esagitata, non fa nulla di eccessivo, e – cosa per me satanica – davvero sorride sempre. È diabolico anche il fatto che il concerto sia talmente artefatto da risultare l’opposto di un’esibizione live. Non penso di essere maligno a pensare che tutti i pezzi siano cantati in playback (su internet ci sono varie discussioni con lunghi thread in merito alla questione): il suono che esce è talmente ovattato, uniforme, mieloso, che sentire le hit su YouTube le fa sembrare più vive.
Ma queste sono tutte cose che noto io. Il pubblico, genitori e bambine, è felice.
“È il giorno più bello della mia vita”, Marta, 6 anni, con una voce quasi robotica.
Ecco, mentre queste bimbette ripetono le parole e le mosse di Violetta, io mi rendo conto che il disagio che ormai sto provando da ore è dovuto a un’assenza talmente evidente che mi era sfuggita. Qui, in questa festa dolcissima e iperemotiva, mi sembra di essere in una distopia dei sentimenti. Mi pare di essere circondato da perturbanti esseri umani, privi di psiche.
Ossia: è ovvio che chi partecipa a un qualunque concerto viva una sorta di trance psichica, di diffuso senso di empatia che lo porta fuori di sé. Ma qui dove sono i sé?
E se questo qualcuno che vive la trance psichica è un bambino di sei anni (una bambina, ok), ossia un essere in cui la psiche è molto lontana dall’essere formata? E se questo senso di trance psichica sembrava essere presente anche prima che il concerto iniziasse e anche dopo che il concerto è finito, in una specie di ipnosi prolungata, come compresa nell’universo di Violetta, tesa tra una puntata della teen-soap e l’altra? Mi sto trasformando in una versione aggiornata di Nantas Salvalaggio che, quando io ero piccolo, lanciava accuse di fuoco contro i cartoni animati giapponesi? Sono diventato quel genere di critico lì, vecchio, bolso, anaffettivo, moralista?
Eppure questo disagio è inscalfibile, e me lo porto dietro da giorni, da quando ho visto decine di puntate di Violetta prima di questo concerto (senza capire che tipo di sensazione mi davano), dopo aver letto i suoi libri. E ora invece realizzo che lo show per molti versi non richiede un’attenzione diversa dalla serie. Il concerto, la serie, creano un’unica reazione emotiva: una sottile ipnosi.
È tutto sopra le righe, tutto calcato, una iperstimolazione continua, narrativamente debolissima, e sensorialmente invece percussiva: i colori, le voci, le canzoni, i toni sempre acuti… Immaginate cosa vuol dire essere immersi in un ambiente del genere molte ore della giornata. Immaginate cosa vuol dire vivere in un mondo violettizzato.
E certo, è materialmente impossibile che una cosa del genere non piaccia a una bambina di sei anni. Il suo cervello è fatto apposta per godere di questa cosa: è cioccolata pura in formato spettacolare, una droga che regala chiaramente dipendenza istantanea. Nessuna seienne può avere veramente un qualche tipo di giudizio distaccato.
Quando ho chiesto alle bambine come si fossero appassionate alla serie, la maggior parte mi ha detto: “Ne ho visto cinque minuti, non potevo staccarmi”.
Per questo, durante il concerto, non ho fatto altro che guardare gli adulti: non solo i genitori (molti di loro si sbracciavano, cantavano le canzoni, emulavano – non so se è la parola giusta – le loro figlie entusiaste); ma anche i ragazzi sul palco. Martina Stoessel, Jorge Blanco, Mercedes Lambro, Ruggero Pasquarelli, gli attori, diciottenni, ventenni di Violetta. Come ci si deve sentire a essere gli idoli, le divinità di un pubblico di bambine di sei-dieci anni? Imprigionati in uno strano patto in cui, per la condanna a essere se stessi, non si è mai veramente dubbiosi, timidi, tristi, meditabondi, in fondo umani?
Quando sono uscito dal Palalottomatica alle sei, con un freddo da bronchite, mi sembrava quasi che l’aria fredda e il buio intorno al palazzetto avessero un potere balsamico. La metro B, era domenica, passa di rado; e sulla banchina eravamo io e un sacco di queste famiglie superstiti con le bandierine sgualcite e le fasce che pendevano, si erano snodate dalla testa o dalle braccia.
Una ragazzina veramente minuscola e cicciotta si lagnava con la madre, diceva: ho fame, ho sonno, mischiava i bisogni, era chiaramente stanchissima, parlava con una strascicata dialettale che poteva essere pugliese o lucana. La metro non è arrivata per un po’, e la bimba ha cominciato a modulare un capriccio a cui a un certo punto ha corrisposto un’incazzatura scomposta della madre, che era traducibile in: ti ho portato a fare la cosa più bella del mondo, e ora mi attacchi questa lagna?
Avrei voluto fare una foto di questo momento: nessuna sorrideva, madre e figlia come due cenci che si rimproveravano l’un l’altra non si capiva cosa, smozzicando una calata che più che un dialetto era una serie di mugugni. Sfatte, la bambina con una sciarpa di Violetta che strusciava per terra lungo la linea gialla, e che la madre non riusciva a farle raccogliere.
In fondo, ho realizzato poi, era l’immagine più bella della giornata.
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