C’è un film che avrebbe dovuto vincere una montagna di Oscar e non ne ha preso nemmeno uno, lasciando il campo a un nuovo conformismo hollywoodiano: performativo, muscolare, virtuosistico. Film molto eterogenei come l’anno scorso Gravity o quest’anno Birdman, ma anche Interstellar, Boyhood o The Grand Budapest hotel hanno questo in comune: un esibizionismo artistico e soprattutto tecnico che ti fa allargare la bocca in un “oooh!” senza riposo, ma che non ti fa dimenticare praticamente mai che ci sia un regista dietro, e che quel regista stia ora dicendo la sua sul cinema, sull’America, su Hollywood stessa come se fosse un manifesto definitivo, da premi e discorsi sul palco.
Uscito l’autunno scorso negli Stati Uniti e oggi in Italia, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson è un film (il suo settimo) meraviglioso e – nonostante sia il parto di un regista iperconsapevole e cinefilo – non dichiara di esserlo ogni minuto, anzi dissimula il suo splendore in una specie di indolenza che è la stessa del suo protagonista Larry Sportello detto “Doc” (Joaquin Phoenix), investigatore privato hippie nella Los Angeles del 1970, città epitome per Anderson, città alla deriva. Da Boogie nights a Ubriaco d’amore altro non è che la sintesi di ogni declinazione incantevole o terribile del sogno americano.
Il trailer di Vizio di forma-Inherent vice
Questo mondo rovesciato in cui veniamo catapultati da subito – paradiso artificiale, terra di nessuno, inferno da B-movie – Anderson in questo caso lo mutua dal libro di Thomas Pynchon del 2009, Inherent vice in inglese (“vizio intrinseco”, o ancora meglio, “difetto di struttura”), dando corpo a una serie di ipotesi che prima di questo film e dopo questo film risultano chiaramente impossibili: sceneggiare un libro di Pynchon, portare sullo schermo un libro di Pynchon, realizzare un capolavoro da un libro di Pynchon.
Ma, incredibile dictu, la scommessa del regista è riuscitissima; e lo è per una premessa che, rischiando il peggiore fallimento, gli rende possibile invece avvicinarsi alla grazia. Essere fedelissimo, al limite del didascalico, alle pagine del romanzo. Certo, ci si può chiedere come è possibile trasformare la prosa espressionista, multidimensionale, di Pynchon in un semplice 2d – tutta quell’immaginazione, tutta quella esplosione onirica ridotte a un prodotto hollywoodiano – ma anche al tempo stesso si fa bene a domandarsi se fotografare un caleidoscopio non può sprigionare risultati strabilianti.
Siamo nell’ambito dello spirituale, comunque. E, appunto, Vizio di forma inizia con due angeli.
Il primo è la narratrice, Sortilège. Interpretata dalla cantautrice arpista Joanna Newsom, è una figura, forse più che angelica, orfica: il suo compito è evocare il passato anche molto prossimo davanti ai nostri occhi. Appare subito per qualche frame e ci fa entrare nella storia, alle volte entrando in scena come un personaggio qualunque dall’aria fantasmatica, molto spesso con la sua voce off. Sempre, comunque: malinconica, sonnolenta, un presagio.
Il secondo angelo ci viene presentato proprio da lei, ed è venuto a portare un annuncio a Doc.
“Arrivò dal vicolo e salì i gradini sul retro, come sempre. Doc non la vedeva da più di un anno.”
Questo è l’incipit pynchoniano di Vizio di forma. L’angelo è Shasta, ex fidanzata di Doc, che “prima vestiva immancabilmente in sandali, slip di bikini e maglietta stinta di Country Joe & the Fish. Stasera invece era tutta in stile-terraferma”.
Per impersonare quest’angelo Anderson ha scelto il volto e il corpo inafferrabile di Katherine Waterston. È lei a occupare i primi rallentatissimi minuti insieme a Joaquin Phoenix nella casa pulciosa di Doc, illuminata di lato da una luce che non si capisce se è quella di un tramonto o di una lampadina fioca. Sinuosa, fintamente arrendevole, il messaggio che gli sussurra sembra uno di quegli escamotage narrativi che danno l’abbrivio ai noir di quart’ordine: è insospettita ma anche preoccupata per il suo nuovo amante, il palazzinaro Wolfmann. Pensa che la moglie e un amante della moglie lo vogliano internare in un manicomio. Doc, può occuparsene?
È impossibile dirle di no – è chiaro anche per noi spettatori – perché se un tempo “Shasta poteva passare intere settimane senza far niente di più complicato che una smorfietta, ora gli stava sciorinando davanti una complicata combinazione di segnali facciali che Doc proprio non riusciva a interpretare”.
Quando i due si salutano (un piano sequenza da 2 minuti e 10 secondi, che è il correlato oggettivo di ogni scena in cui nella nostra vita abbiamo salutato una ex fidanzata della quale siamo ancora innamorati), sappiamo già in che guaio lui si sia ficcato. E noi con lui.
Così – solo un pugno di scene dopo – Doc non ha cominciato nemmeno le indagini che già si ritrova accusato di omicidio e rapimento dall’ispettore Christian Bjornsen detto “Bigfoot” (Josh Brolin), il quale – mentre ancora è a terra – gli urla in faccia una battuta perfetta: “Benvenuto in un mondo di seccature”.
Le restanti due ore circa di Vizio di forma sono un viaggio senza freni, digressivo, lebowskiano, in questo mondo di seccature, tra bande di motociclisti ariani, sette pseudoreligiose, avvocati male in arnese, organizzazioni massoniche di dentisti, poliziotti corrottissimi, gangsteracci poco credibili, federali vagamente omofili, infermieri di cliniche riabilitative, stelle del rock in disarmo, tossici di ogni tipo, e tutta una fauna di reduci di una stagione breve, brevissima, appena finita.
Sì, la California del 1970 è già un mondo in declino. L’utopia della rivoluzione sessuale, della liberazione psichedelica, della lotta studentesca si è adulterata in una visione puramente nostalgica (come il flashback struggentissimo che rievoca una corsa di Doc e Stasha sotto la pioggia al tempo del loro incredibile amore), mentre il presente ora è tutto pieno di cattive vibrazioni; il concerto dei Rolling Stone ad Altamont con i suoi morti e le violenze degli Hells Angels, gli omicidi della Manson Family gettano la loro ombra sulle spiagge assolate e i loro bungalow.
Ma soprattutto il flower power non esiste più perché, come si vede in questa foto proprio del 1970, la storia ha scelto decisamente altri protagonisti.
I tempi stanno cambiando, ma in peggio. La discesa tra queste rovine per Anderson e Doc segue i cliché di un noir chandleriano. Anzi segue il modello della trasposizione di Robert Altman del Lungo addio. Anzi ancora, segue – secondo le parole che lo stesso regista ha usato per dare una definizione a Vizio di forma – un accidentato slalom tra Il lungo addio e la demenzialità di Zucker-Abrahams-Zucker e Cheech e Chong.
Se è evidente, per chi li conosce, il debito nei confronti di Zucker-Abrahams-Zucker e Cheech e Chong – che però non si riduce alla comicità stonata né all’aura di fattonaggine che circonda perennemente la percezione di Doc (quando Bigfoot lo sfotte, gli dice una cosa del tipo: “Ti abbiamo sequestrato la macchina, e a parte i residui di cannabis sufficienti a tenere strafatta una famiglia di quattro persone per un anno, sei pulito”), ma vuol dire anche la capacità di rendere l’anima cartoonesca di Pynchon, con le sue scene slapstick e lo spirito di vaudeville – la relazione con Robert Altman invece è un rapporto totalizzante.
A partire dalle luci scialbe che ci regalano un’immagine spenta, livida della California (Altman e il direttore della fotografia Vilmos Zsigmond usarono per Il lungo addio un negativo esposto e riprese fatte anche con filtri naturali come finestre e graticci; Anderson e Robert Elswit hanno scelto di lavorare con una pellicola scaduta per creare quest’effetto délabré, da polaroid dimenticata in un libro), il nume tutelare di Altman è da sempre dichiarato e implicito.
Qualche anno fa Anderson disse: “Se la gente mi vuole chiamare il piccolo Bob Altman, per me non è un problema”, e oggi qualunque recensore non esita a sottolineare questo debito. La straordinaria capacità di entrambi di dirigere gli attori (vogliamo ricordare cosa è riuscito fare Paul Thomas Anderson con Philip Seymour Hoffman?), di farli lavorare coralmente: sono notazioni al limite dell’ovvio anche queste.
Quello che piuttosto non si rimarca mai abbastanza dei capolavori di Anderson, proprio perché offuscato forse dal suo talento assoluto alla macchina da presa, è la sua capacità di scrittore.
Quest’anno Vizio di forma è stato battuto da The imitation game nella categoria degli Oscar “miglior sceneggiatura non originale”; ed è un affronto anche peggiore di quello per le mancate candidature a miglior film e a miglior regia. L’aspetto impressionante della scrittura di Anderson è che ogni volta nei suoi film, superata la metà in cui l’accumulo di plot è tale da lasciare quasi disorientati, la differenza tra realismo e surrealismo si attenua, così come di fatto scompare quella tra una narrazione lineare e un palese effetto di straniamento; pensate a Magnolia con le sue rane che piovono, ma anche con i protagonisti che cantano tutti insieme Aimee Mann, pensate a The master in cui nell’ultima parte è sempre più complicato discernere le fantasie dei protagonisti dagli eventi reali.
C’è un momento in cui il regista ci ha stregato. Così, anche in Vizio di forma, il nostro punto di vista si fida e si accoda sempre di più a quello di Doc, alla sua romantica visione del mondo e alla sua pervasiva paranoia, ai suoi flash, ai suoi ralenti, al suo sguardo sperduto, alla sua prospettiva sempre laterale, parziale (c’è per esempio questo piccolo escamotage registico che Anderson applica molte volte quando un nuovo personaggio entra in scena: lascia la camera all’altezza di un metro e poco più, in questo modo gli taglia la testa, e solo quando si siede vediamo chi è), e soprattutto a quel tipo di concezione entropica per cui ogni evento si collega a un altro secondo una logica, anche narrativa, che è quella del caso, anzi di una tavoletta oujia.
C’è qualche critico, come Richard Brody in questa peraltro magistrale recensione sul New Yorker, che ha trovato che questo modo di congegnare Vizio di forma lo renda ipercontrollato, che sia un film troppo rispondente alle aspettative del regista, e che quindi finisca per non sorprendere. Ma questo vuol dire non aver compreso lo spirito iconoclasta che anima il film proprio in quanto omaggio al libro pynchoniano (in Italia Vizio di forma è pubblicato da Einaudi nella traduzione di Massimo Bocchiola).
Se si è lettori di Pynchon si sa quanto dalla prima all’ultima riga si percepisca un’aria posticcia, per certi versi derivativa, parodica, se non addirittura autoparodica, e che tutto questo sia però compensato da una tale deflagrante inventiva da pretendere da noi lettori un’esperienza immersiva, quasi lisergica.
La stessa sensazione la ricaviamo analizzando la recitazione di Vizio di forma (il doppiaggio è un disastro: rende pulite, addirittura stentoree a volte, tutte le voci che invece in inglese costituiscono quasi un unico suono impastato). Vediamo che Phoenix e gli altri – su tutti svettano Owen Wilson e Josh Brolin – sembrano alle volte gigioneggiare (le critiche sono arrivate anche qui). Ma no, non stanno appoggiandosi al loro mestiere; piuttosto cercano di fare una cosa molto difficile: prendere sul serio l’elemento comico intrinseco dell’esistenza nelle nostre società ipermoderne. Cos’altro c’ha insegnato Pynchon sennò?
Per esempio, come possiamo reagire altrimenti alla scena in cui nel primo interrogatorio, Bigfoot incalza Doc: “Io sono tante cose ma non sono uno stupido… Più di una volta sono stato definito dal Los Angeles Times un detective rinascimentale” (sentitelo in inglese Brolin, se potete, Brolin che pronuncia: “A renaissance detective”).
O per esempio guardate per intero questa clip.
È come se avessimo visto un mucchio di volte scene di questo tipo, iperironiche, caricaturali, esagerate (la migliore è quella in cui Bigfoot ordina pancake al ristorante orientale in un demenziale giapponese). I film dei fratelli Coen hanno questo tono, quelli di Quentin Tarantino, i libri di David Foster Wallace, quelli di David Sedaris.
Ma questo codice diffuso e ormai popolare ha un’origine precisa ed è quello che in genere chiamiamo postmoderno – che altro non è in fondo che un particolare tipo di comicità (nb: comicità, non ironia): andare a rintracciarlo nel libro di Thomas Pynchon sugli anni settanta ha per Anderson il valore di un riconoscimento certo, ma anche e soprattutto è un modo per affermare che credere a questo sentimento di rimpianto non è solo un vezzo.
E nella colonna sonora (pure qui una colpevole mancanza nelle candidature agli Oscar), questa poetica è addirittura dichiarata. Nei pezzi che ha composto Jonny Greenwood (chitarrista dei Radiohead che aveva già lavorato al Petroliere e a The master) e nelle altre canzoni scelte, non troviamo un semplice gusto vintage di rievocare un’epoca e di ritrovarne il ritmo perduto – fate per esempio il confronto con la colonna sonora del Grande Lebowski o di American hustle.
La colonna sonora di Vizio di forma non è solo squinternata, sghemba, disturbante, alle volte horror: è dolorosa. E lo è perché non pacificato, straziante, tormentoso è ritornare sui luoghi in cui si consumò quella frattura tra una breve stagione sognante e la lunga era che arrivò subito dopo: quel reaganismo che nemmeno oggi possiamo decretare concluso. Perciò la lancinante nostalgia di Doc per l’amore perduto con Stasha (“sono diventata la puttana di un palazzinaro”, gli dice lei in una scena di sesso che da sola sarebbe valsa una nomination anche per Phoenix e la Waterston) ci tocca, ci fa male.
È questo l’inherent vice, oggetto della sconclusionata indagine di Doc. Che cos’è che è andato storto a un certo punto? Perché la cultura dominante e la controcultura sono rimaste così impermeabili l’un l’altra? Perché qualsiasi rivoluzione si trasforma nella versione gemellare e mostruosa di sé? Qual è il difetto di struttura del mondo in cui viviamo da quarant’anni?
Ps. Ascoltando la colonna sonora, mi sono soffermato su questo pezzo di Minnie Riperton. Lei è una cantautrice morta nel 1979, madre di Maya Rudolph – che è la moglie di Paul Thomas Anderson e recita anche lei nel film (è la receptionist dello scalcinato ufficio di Doc).
Ma tutto il cast sembra composto da attori in qualche modo imparentati ad altri attori: Joacquin Phoenix è il fratello di River; Owen Wilson (Coy Harlingen, un musicista scomparso e prigioniero di una setta tipo Manson che Doc deve riportare a casa) è il fratello di Luke e Andrew; Eric Roberts (il magnate Michael Wolfmann) è il fratello di Julia Roberts; Serena Scott-Thomas (la moglie di Wolfmann) è la sorella di Kristin; Josh Brolin è figlio di James Brolin… Cosa aveva in mente il regista con questo casting? Di scatenare anche la nostra di paranoia? Oppure voleva insinuare che, anche fuori della finzione dello schermo, ognuno porta sempre con sé un vizio di forma?
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