Che fine farà Roma? Per come passa nel discorso pubblico, la capitale è un malato in agonia, non c’è nessuno che osi dire il contrario. Le reazioni dei mezzi d’informazione e della politica, disarmate dalla seconda tornata di arresti di Mafia capitale, assumono giorno per giorno un gergo medico sempre più emergenziale: salviamo Roma, occorre una terapia d’urto…

La giunta di Ignazio Marino subisce attacchi sempre più possenti che arrivano dall’inchiesta del giudice Giuseppe Pignatone sulle collusioni con la banda Buzzi-Carminati di molti uomini del governo comunale e regionale; dalle opposizioni che, seppure in modo sgangherato, ne hanno fatto un bersaglio condiviso; da un’opinione pubblica che chiede con urgenza un capro espiatorio da sacrificare.

Anche i vertici del Partito democratico sono incerti se mollarlo o meno.

Ignazio Marino, il 9 aprile 2015.
(Paolo Tre, A3/Contrasto)

Renzi il rottamatore si trova con due gatte da pelare molto ispide. Difendere De Luca in Campania e Marino a Roma vuol dire diventare l’emblema di una politica vecchia e compromessa, e di fatto regalare al Movimento 5 stelle – se non a Salvini, o addirittura a Fratelli d’Italia – la patente di lotta alla casta e di rinnovamento: difficile immaginare che riesca a (o voglia) farsi carico di entrambi.

E così l’unica soluzione, quella draconiana, sembra il commissariamento: il prefetto Franco Gabrielli è l’uomo forte che dovrebbe igienizzare l’ambiente infetto.

A leggerla così, senza nemmeno troppa profondità di analisi, quella di Roma si mostra come l’esemplificazione di una crisi politica che si è aggravata per vent’anni e che oggi non trova rimedi.

Del resto, la ormai celebre cooperativa 29 giugno cominciò ad allargare il suo potere dalla fine degli anni novanta. La sua ascesa e la sua deriva criminale sono il simbolo di uno scompenso che ha cause endemiche: la mafia non si afferma se non ci sono le condizioni di una crisi sociale.

E queste condizioni sono almeno cinque: tre sono analisi sociali – più che politiche – ben individuate in un lungo saggio dell’ex vicesindaco Walter Tocci (che riprende anche le tesi di un importante libro del 2013 di Francesco Erbani, Il tramonto della città pubblica):

1) L’industria a Roma non esiste più. Telecom, Fs, Alitalia, Eni, Enel, Finmeccanica se ne sono andate fuori dell’Italia, hanno venduto agli stranieri, non si sono rinnovate, hanno attraversato crisi profondissime. Il motore di sviluppo che dovevano rappresentrare è ingolfato se non spento. Il terziario avanzato romano somiglia a una cassa del mezzogiorno informale piuttosto che a un volano di un progresso di qualche new economy.

Allo stesso tempo il capitalismo straccione italiano invece di ristrutturare le vecchie aziende municipalizzate le ha spolpate. La vicenda di Cragnotti con la Centrale del latte o quella della corruzione dell’Acea ai tempi di Alemanno sono due tra i molti esempi.

2) La bolla del mattone è esplosa, ma con i danni che può fare una bomba a grappolo. Roma è, nonostante il recente piano regolatore, una città senza urbanistica. In cui sono paradossalmente aumentate sia l’emergenza abitativa sia la quantità di città cementificata, che si è mangiata in modo feroce l’agro romano.

L’approccio alla crisi economica e al tentativo di contrastarlo attraverso l’investimento nell’edilizia non si è mai discostato da quella che Francesco Erbani ha chiamato la “moneta urbanistica”. Come rimpinguare le casse del comune? Concedendo sistematicamente nuovi permessi edilizi in cambio di microelargizioni.

3) L’idea delle varie amministrazioni di trasformare la periferia romana, anzi tutta la cintura urbana romana, in una grande area commerciale, con decine di megastore e poli della grande distribuzione, si è rivelata – all’arrivo della crisi del 2008 – un’idea di sviluppo fragile: le presenze si sono dimezzate, i negozi chiudono e l’indotto crolla.

Se si vuole capire la trasformazione di uomini del Pd in funzionari imbelli o in piccoli faccendieri corrotti bisogna fare i conti anche con un’idea di organizzazione politica che per anni è stata autoreferenziale.

La quarta e la quinta condizione sono invece politiche e sono quelle più fatali, perché indicano delle responsabilità ancora più precise:

4) Il decentramento amministrativo si è rivelato solo un outsourcing sociale. Senza concedere reali autonomie, si è creato “un terreno sfavorevole alla qualità e all’innovazione delle imprese sociali: le gare a ribasso, il ritardo nei finanziamenti, l’instabilità degli obiettivi non erano certo stimoli alla crescita di una nuova imprenditorialità, anzi costringevano questi soggetti, chi più chi meno, a negare la vocazione solidale utilizzando forme di lavoro precario, rinunciando alla formazione e legandosi al potere politico come protezione rispetto all’instabilità delle decisioni e alle inadempienze dei burocrati. Nel contempo il rapido e intenso aumento della spesa sociale attraeva sempre più le attenzioni del notabilato, prima rivolte ad altri settori”.

Ed è facile che questa amministrazione squalificata finisca per essere permeabile all’affarismo mafioso.

5) La crisi della rappresentanza è stata risolta con il feticcio della disintermediazione. Il risultato è che non è cresciuta una nuova classe politica. Il “mondo di mezzo” – che metteva insieme i neofascisti alla Carminati e speculatori del terzo settore come Buzzi – ha colmato un vuoto.

L’esternalizzazione del governo pubblico, con municipalizzate e cooperative sociali che invece di assumere il meglio del pubblico e del privato ne hanno incarnato il peggio, ha reso possibile il mostro dello sfruttamento del disagio sociale. Chi poteva ha cominciato a lucrare sui migranti, i tossicodipendenti, i senza casa, i rom.

Se si vuole capire la trasformazione di uomini del Pd in funzionari imbelli (nel migliore dei casi) o in piccoli faccendieri corrotti (nel caso, abbiamo visto, assai comune) si deve però fare i conti non solo con i “gravi fenomeni degenerativi” – come li ha definiti Fabrizio Barca alla conclusione di un’inchiesta interna al Pd – ma con un’idea di organizzazione politica che per anni è stata autoreferenziale, impermeabile ai movimenti sociali, incapace di leggere le trasformazioni in atto, attenta al massimo a quella che un tempo si sarebbe chiamata la sovrastruttura, desiderosa soprattutto di autoconservarsi.

Per questo vale la pena risfogliarsi le analisi dei dirigenti politici dal 2000 in poi. Prendete il libro di quello che viene considerato il manovratore del Pd romano degli ultimi due decenni, Goffredo Bettini, un’intervista che gli fece Carmine Fotia giusto due anni fa all’indomani dell’elezione di Marino, Carte segrete (qui trovate ampi estratti).

La visione di Bettini è purtroppo tutta politicista e romanocentrica. Non cita praticamente nulla delle esperienze politiche fuori dell’Italia; rispetto alla cultura, il massimo che riesce a proporre è un polo d’eccellenza “per un turismo consapevole” tra l’Auditorium e il Maxxi; rispetto alla macchina amministrativa, un decentramento che non sembra tenere conto della rivoluzione sociale che oggi vive Roma.

Fa impressione riprendere in mano questo testo perché è del 2013! Nel 2013 il vento delle primavere arabe, degli indignados, di Occupy Wall street, delle battaglie sui beni comuni era ancora potente. E questo vento aveva cominciato a soffiare nelle città: al Cairo, a Istanbul, a New York, a Madrid, perfino a Roma.

Rispetto a queste esperienze, Bettini mostra una conoscenza vaga e un interesse astratto.

È davvero possibile, ci si chiede allora, che il Pd non abbia mai intercettato nessuna delle spinte dei movimenti? Se Walter Tocci ricorda che “il segretario Marco Miccoli cercò un’alleanza con le associazioni del referendum sull’acqua per contrastare le manovre di Alemanno nella svendita dell’Acea” è solo perché è stata un’assoluta eccezione.

Questi giorni devono essere di difficile meditazione per il sindaco Marino: isolato, spalle al muro, sbeffeggiato. La sua linea di difesa è quella di aver fatto argine alla corruzione, di essere stato – magari perché ingenuo – insospettabilmente onesto. Ma il suo tentativo di passare per eroe è sciocco e disastroso.

Se non fosse già così evidente, si potrebbe fargli notare che si tratta di una difesa fragile: per chi fa il politico l’onestà è semplicemente la condizione preliminare, mentre la responsabilità più grave si rivela sempre quella di non avere una prospettiva di lungo raggio.

Per esempio: sui giornali di questi giorni la sua faccia tesa compariva, creando uno strano effetto di contrasto, vicino a quella del sindaco di Napoli Luigi De Magistris che partecipava al centro sociale Asilo Filangeri di Napoli alla presentazione dell’importantissimo libro di Pierre Dardot e Christian Laval, Del comune, o della rivoluzione del XXI secolo. Perfino un sindaco criticatissismo come De Magistris ha compreso cosa vuol dire immaginare un diverso concetto di amministrazione cittadina, meno verticale, più porosa alle istanze dal basso. Perché quando Dardot e Laval sono venuti a Roma, Marino non ha nemmeno immaginato di incrociarli?

Per non essere delle anime belle, dobbiamo riconoscere la responsabilità anche di chi ha vissuto questa città infischiandosene di prendere qualunque impegno politico.

E sempre in questi giorni si trovavano dappertutto i volti molto sorridenti delle due nuove sindache spagnole – Manuela Carmena a Madrid e Ada Colau a Barcellona. Elette con Podemos, entrambe sono espressione di una lunga militanza in movimenti extrapartitici, entrambe protagoniste di battaglie politiche dal basso: l’allargamento della partecipazione, la lotta alla corruzione, quella per il diritto all’abitare.

Prendiamo anche solo questi temi: è possibile che Marino abbia delegato la questione della corruzione a un’inchiesta di Orfini all’interno del Pd e a un assessorato-fantoccio alla legalità affidato ad Alfonso Sabella? È possibile che, rispetto all’emergenza case, sia ogni volta imbelle e assente? È possibile che rispetto al manifestarsi di un’esigenza di democrazia diretta, la risposta della giunta Marino sia quella di aumentare gli sgomberi?

Ma non vogliamo peccare di qualunquismo, finendo per esercitarci anche noi nella pratica del “dagli al sindaco”. Se non vogliamo essere delle anime belle, dobbiamo ammettere che la crisi politica della giunta Marino e della sinistra che rappresenta è anche responsabilità di chi ha vissuto questa città, infischiandosene di prendersi qualunque impegno politico.

Quanti di noi negli ultimi anni hanno partecipato a un’assemblea pubblica? Quanti di noi hanno fatto politica attiva? Chi di noi ha fatto un qualche intervento pubblico, spendendo un tempo maggiore di quello utile a scrivere qualche commento indignato sui social network? Quanti invece hanno in fondo pensato che la politica si possa rimpicciolire al feticcio della denuncia del degrado urbano?

In quella fase che Colin Crouch definisce “postdemocrazia” non ci identifichiamo forse con una cittadinanza che non può fare altro che essere relegata a una dimensione passiva? E perché? Perché spesso di fronte ai processi di crisi della democrazia che ci investono così violentemente, reagiamo con un’indifferenza schifata o al massimo con un moto di sdegno?

In Italia gli indignados indolenti ingrossano le file di quello che Michele Prospero – in un bel libro recente, Il nuovismo realizzato chiama “il populismo mite”, una melassa di passioni tristi, frustrazione e risentimento, senso di impotenza, fascino per la reazione.

Cosa allora si può fare perché la crisi della politica non si trasformi automaticamente in antipolitica?

Il testo di Prospero nelle pagine finali indica una strada in controtendenza rispetto a quello che ha seguito Marino finora seguendo l’esempio di Renzi, ossia ricostruire la mediazione, ripensare l’organizzazione politica non in base alle leadership carismatiche, o al fascino per uomini forti, commissari, paladini della legalità repressiva.

Ecco – senza chiamare in causa i progetti della Coalizione sociale di Maurizio Landini (il cui primo appuntamento, il 18 maggio, non a caso si è svolto a Roma) o di Possibile di Pippo Civati (il cui primo appuntamento, il 21 giugno, non a caso si svolgerà a Roma) – è forse lo stesso tentativo, faticoso, solitario ma lodevole, che porta avanti da ormai due anni Fabrizio Barca all’interno del Pd e non solo, e che proprio sabato scorso sempre a Roma ha provato a riesporlo in un’assemblea di militanti: “il partito palestra” che immagina è l’idea di un partito dove ci sia un attivismo quotidiano, al posto di una macchina celibe che funziona solo per autoalimentare il potere (qui c’è il video dell’intero incontro, ed è molto istruttivo).

L’intuizione di Prospero e Barca potrebbe indicare, almeno sul breve periodo, un metodo reale per curare un partito così marcio come il Pd. Ma – se poi vogliamo guardare a un orizzonte più lontano – non possiamo che immaginare che il vero cambiamento necessario si manifesterà nella trasfigurazione della stessa forma di quella che chiamiamo democrazia.

Un pamphlet del 2007 (prima della crisi!) di David Graeber, Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta indicava come molti movimenti politici, dagli zapatisti a quelli che si opponevano agli sfratti nelle township sudafricane, avessero trovato molte strade per superare la crisi della rappresentanza e innescare processi di partecipazione diretta.

Se non vuole soccombere alle slavine dell’antipolitica, sulla sua poltrona traballante Ignazio Marino potrebbe magari trovare il modo e il tempo per leggersi almeno le prime dieci pagine del libretto di Graeber, e – senza perdere troppo tempo – provare a capire come aprirsi ai movimenti sociali e alle battaglie che portano avanti.

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