Come si valuta un bravo insegnante? E uno non bravo? Chi decide come valutarlo? Chi lo valuta? Che effetto ha questa valutazione? Come si fa a migliorare il suo metodo, le sue prestazioni? Gli insegnanti migliori devono essere premiati, e i peggiori devono essere penalizzati?

Come è facile intuire, questo genere di interrogativi attraversa, da almeno una ventina d’anni in Europa, un dibattito sulle politiche della scuola e quelle del lavoro, con esiti molto diversi da paese a paese, ma ricco di studi approfonditi, di pedagogia comparativista.

In Italia la legge della Buona scuola ha pensato di rispondere a questioni di così vasta portata, partorendo il topolino di un comitato di valutazione che decreta a quali insegnanti dare un bonus economico.

Sono i commi dal 126 al 130 della legge a definire la questione del bonus. Il ministero dell’istruzione ha chiarito solo qualche giorno fa che si tratta di uno stanziamento annuo di 200 milioni, per cui a ogni scuola dovrebbero spettare mediamente 24mila euro. A ogni insegnante premiato arriverebbero più o meno, dunque, tra i 200 e i 250 euro. All’anno.

Il bonus dovrebbe servire a “valorizzare il merito del personale docente di ruolo e ha natura di retribuzione accessoria”.

Correre ai ripari

Per decidere a chi destinare questi soldi in ogni scuola si deve costituire, appunto, un comitato di valutazione. La legge prescrive che questo comitato resti in carica tre anni, sia presieduto dal dirigente scolastico e sia composto da tre insegnanti, due rappresentanti dei genitori (uno dei genitori e uno degli studenti per le superiori) e un componente esterno scelto dall’ufficio scolastico regionale; il lavoro di questo comitato sarebbe gratuito.

Già da luglio questi pochi commi hanno creato il caos nelle varie scuole. In ognuna si è cercato di correre ai ripari: prima di ragionare su quali fossero i docenti meritevoli di bonus e quali fossero i criteri di valutazione dei docenti, si è dibattuto ovviamente su quali dovessero essere i docenti del comitato di valutazione e con quali criteri sceglierli.

Interminabili collegi docenti, riunioni informali, confronti spaccacapello, che hanno generato domande abbastanza prevedibili, del tipo: se un insegnante mio amico farà parte del comitato è probabile che si adopererà per farmi avere il bonus, no? Oppure: quest’anno non bisogna inimicarsi la preside, altrimenti addio bonus?

In questa spessa nebbia i sindacati non aiutano, anzi danno indicazioni diverse

I più volenterosi tra i colleghi hanno provato a proporre delle soluzioni condivise, immaginando che i criteri da premiare dovessero essere il meno arbitrari possibile. Per esempio: la puntualità. Ma si è obiettato, giustamente, che arrivare puntuali in classe fa parte dei doveri del contratto di lavoro. Altrimenti, per dire, uno potrebbe comodamente rinunciare al bonus e presentarsi mezz’ora in ritardo tutte le mattine.

Alcuni insegnanti e alcuni presidi avevano proposto di devolvere la dotazione del bonus per scuola (questi 24mila euro circa) nel corrispondente Fis – cioè l’esiguo Fondo istituzione scuola che i vari istituti hanno a disposizione per le spese di manutenzione, progettazione, eccetera. L’idea era ragionevole: visto che i soldi per le spese vive sono così pochi (il Fis per ogni scuola è tra i 23mila e i 30mila euro), troviamo altri fondi per le iniziative che riguardano tutti. Ma molti contestano la fattibilità di questa proposta, per ragioni giuridiche.

In altre scuole si è tentato di optare – nella ricerca affannosa di una qualche obiettività dei criteri – per una scelta di parametri quantitativi: premiamo, si è pensato, quei docenti che lavorano di più. Ossia: coordinatori di classe, i tutor, i coordinatori di dipartimento, quelli che scrivono i verbali durante i collegi docenti o durante i consigli di classe.

Ma anche questa, che era una soluzione apparentemente sensata, penalizzerebbe quegli insegnanti che faticano ad aggiungere ore di lavoro di coordinamento, perché per esempio lavorano su più scuole, perché c’è qualcun altro che fa il coordinatore di una certa classe da anni e lo fa bene e non si capisce perché dovrebbe essere sostituito, eccetera.

In questa spessa nebbia i sindacati non aiutano, anzi danno indicazioni diverse.

La Cisl ha rilasciato dichiarazioni che prendono atto della situazione: “Si tratta di una responsabilità spinosa, anche per gli effetti che può generare sul clima”.

La Cgil ha proposto un percorso condiviso per le scuole – che un po’ sembra una road map (si può scaricare qui) un po’ sembra una semplificazione della normativa – nell’intento, si dice, di coinvolgere maggiormente il collegio docenti nella scelta di come e a chi destinare questi soldi.

La Uil è scettica sull’adottare criteri in qualche modo quantitativi, ma sembra l’unica sigla sindacale a essere convinta, per esempio, che esista già una serie di parametri obiettivi di valutazione ai quali rifarsi: ossia i risultati degli studenti.

Metodi e strumenti esistono già, basterà infatti guardare per esempio a risultati ed esiti certificati e oggettivi, misurati su gruppi di alunni o gruppi classe, alle rilevazioni nazionali e internazionali, (con il limite del loro riferimento a non più di due discipline), agli esiti delle prove negli esami di stato, la partecipazione a tornei, a gare, a olimpiadi studentesche, ai livelli di competenze superiori a quelle previste dagli ordinamenti, o il loro raggiungimento in tempi più brevi, ad attività di recupero realizzate con successo, a quelle di potenziamento e ampliamento delle competenze, alla capacità…

Nell’Usb c’è chi ha scelto di boicottare, dando l’indisponibilità a far parte del comitato di valutazione per esempio, e chi ha immaginato ancora che si possano trovare dei criteri quantitativi.

I Cobas rintuzzano i sindacati confederali, sostenendo che la gestione del conflitto non fa che smorzarlo, e sono di fatto favorevoli a boicottare i comitati di valutazione.

Anche quelli della Gilda sono duri e come altri sottolineano che il bonus per la valutazione

  • contrasta con i princìpi costituzionali e viola le leggi vigenti che prevedono che il trattamento economico fondamentale e accessorio è definito dai contratti collettivi;
  • crea un’autorità salariale nella figura del dirigente scolastico e gli attribuisce poteri in materia didattica in contrasto con le sue competenze e le sue funzioni che sono di carattere gestionale, amministrativo e organizzativo;
  • attribuisce, caso senza precedenti in Europa, competenze didattiche e valutative a componenti non professionali nel comitato di valutazione;
  • subordina gli organi collegiali alla volontà di un organo monocratico;
  • lede la libertà di insegnamento poiché il bonus, con il suo potere di condizionamento, limita fortemente l’autonomia professionale;
  • prevede una procedura premiale estranea alla cultura cooperativa e collegiale della scuola italiana.

E potremmo continuare, citando altre sigle sindacali, o correggendo queste posizioni che spesso non sono unitarie all’interno della stessa sigla sindacale.

Qual è la considerazione ineludibile che si ricava da questa incertezza? Che un risultato la norma sul bonus di valutazione l’ha prodotto in tempi davvero brevissimi. La spaccatura degli organi collegiali fra loro, la spaccatura all’interno dei collegi dei docenti, la spaccatura in un fronte sindacale che fino a quest’estate era stato abbastanza unito.

Se ci si fosse rifatti alle esperienze di altri paesi, ci si sarebbe almeno resi conto che i comitati di valutazione rappresentano un insieme confuso e disordinato, che nessuno ha proposto fuori dell’Italia.

Una confusione inutile e dannosa

In Francia e in Germania gli insegnanti sono valutati a intervalli regolari da ispettori statali esterni attraverso esami scritti, colloqui, un’analisi del lavoro svolto in classe. In molti altri paesi – Belgio, Lettonia, Paesi Bassi, Romania, Austria, Polonia – c’è un’organizzazione esterna responsabile della valutazione. In Svezia e in Finlandia la valutazione non è obbligatoria, ma avvengono continui colloqui con il capo d’istituto per coordinarsi sugli obiettivi prefissati.

Da noi invece, con una colpevolezza pilatesca, non si è voluto fare nessuna scelta, determinando una confusione inutile e dannosa. Oggi ancora non si capisce, per esempio, quanto il raggiungimento degli obiettivi del piano per l’offerta formativa (Pof) elaborato da ogni scuola concorra a garantire un premio. Sembra che incida molto; ma se fosse così, viene da domandarsi se non si umili il lavoro dell’insegnante, relegando la sua attività a una mera adesione a un documento che nel migliore dei casi è un’edificante lettera d’intenti.

Il grande litigio dura ormai da mesi. Ore e giornate perse a discutere di una questione importante – la valorizzazione dei docenti – evidentemente posta malissimo.

Come cavarsela? L’unica possibilità è forse rinunciare. Né boicottare né cercare soluzioni di compromesso. Ma lasciare che questo ebete processo di valutazione di massa faccia il suo corso, e nel momento in cui arrivi a dei risultati, lo si prenda per quello che è: un sistema inefficace e dispendioso. Nel caso saremo tra i non premiati, pace. Nel caso saremo tra i premiati, rinunceremo a questi soldi che non sono solo un’elemosina, ma sono offerti anche con la mano sbagliata.

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