Inoltrarsi nell’universo di Terry Gilliam è bellissimo: è come attraversare una parte inesplorata della nostra memoria, perdercisi, e poi, dopo esserci spinti oltre un certo punto, considerare l’ipotesi di non volerne (poterne) più uscire.

Lo incontro in occasione della traduzione italiana della sua autobiografia, Gilliamesque (traduzione di Assunta Martinese per BigSur, la nuova collana delle edizioni Sur), un libro-opera d’arte pieno di disegni, foto d’epoca, frame di film, ritagli di giornali, tutto assemblato nello stile di cut-up artigianale che Gilliam ci ha insegnato ad amare fin dai tempi dei Monty Python, quando intervallava gli sketch comici con i suoi cartoon realizzati con fotomontaggi e animazione amatoriale.

Come tutti i grandi artisti, anche quella di Gilliam è un’autobiografia larger than life perché appunto “ha a che fare con l’arte e non con la vita”, ma lo è anche per un altro motivo: “È un’autobiografia incompleta, perché il momento migliore della vita è quando morirò e nel libro non c’è”, mi dice ghignando.

Visionario, lisergico, profetico, Gilliam è di fatto l’ultimo grande modernista; e Gilliamesque ci spiega perché, raccontandoci fin dall’incipit un’esistenza vissuta come un luogo fantastico. Dall’infanzia:

Quando ripenso al paesaggio in cui sono cresciuto, so che dall’altra parte della strada sterrata che passava davanti casa nostra c’era una grande palude, e che più avanti lungo la strada c’era un bosco terrificante con una casa mezza diroccata, abitata non si sa da chi. Subito la mente comincia a fantasticare. Anche la palude era magica, perché un anno tagliarono un sacco di alberi e li accatastarono sul ciglio della strada, e strisciando sotto i tronchi trovavamo un sacco di meravigliosi nascondigli pieni di muschio.

A una giovinezza che inseguiva un’altra fantasia, quella libertaria degli anni sessanta californiani:

E dato che io avevo avuto la fortuna di accedere di tanto in tanto a quel regno dell’immaginazione in cui avrebbe dovuto condurti l’lsd anche senza bisogno di aiuti chimici, volevo essere certo che l’itinerario di quei viaggetti rimanesse saldamente sotto il mio controllo.

Tutti i suoi film, a partire da Jabberwocky fino a Zero theorem (ancora non distribuito in Italia), sono dei viaggi controllati in questo regno. Questo elenco di quattordici pellicole a stento comprende quelle per cui Gilliam stava per perdere il controllo, come Le avventure del barone di Münchausen – che sforò completamente ogni tetto di budget – o come Parnassus – durante le cui riprese Gilliam si trovò ad affrontare la morte improvvisa del protagonista Heath Ledger, cambiando la sceneggiatura e affidandone il ruolo a tre suoi amici-attori: Johnny Depp, Colin Farrell, Jude Law. E questo elenco non include – ancora – il film su Don Chisciotte (The man who killed Don Quijote), che le ultime agenzie danno in produzione dal 2017 finanziato da Amazon, ma che è stato un tentativo più volte abortito, tanto da generare un meraviglioso documentario su questo fallimento, Lost in La Mancha.

Cominciamo dai nervi scoperti.

“La tua lotta con Chisciotte?”, gli domando.

“Mi rendo conto che è profondamente ridicola”.

“Ma Chisciotte è come te, lotta con il mondo, cerca di dargli un senso, però ogni volta ne viene sconfitto, per te ora il nemico sembra proprio la tua nemesi”.

“Peggio. Chisciotte è tipo un tumore che devo rimuovere ogni volta”.

“Non hai avuto paura di diventarci pazzo?”.

“Sì, io odio Chisciotte. Ho raggiunto un punto in cui mia moglie mi ha detto stop. Ora vedremo quello che succederà”.

“Nemmeno il documentario ti ha salvato dal film?”.

“La differenza tra il film che dovevamo fare nel 2002 e il film che vorrei fare ora è notevole. In questi anni il progetto è diventato sempre più autobiografico e parla della paura di fare film. Prima il personaggio finiva nel diciassettesimo secolo, ora è tutto ambientato nel ventunesimo. Nell’originale il personaggio di Chisciotte era veramente Chisciotte, ora è un uomo che impazzisce e pensa di essere Don Chisciotte”.

I personaggi dei suoi film sono tutti degli ostinati sognatori, che cercano di proteggersi da un mondo brutale, e ci riescono almeno per un po’, costruendo fantasie esorbitanti: è così per il barone di Münchausen, capace di sopravvivere a guerre di religione cruente; ma anche per Dr. Gonzo e Duke in Paura e delirio a Las Vegas alle prese con le polizie che già negli anni sessanta usavano la loro brutalità idiota per reprimere la controcultura; o per Parry, il barbone della Leggenda del re pescatore che ha rimosso un trauma familiare credendo di essere tornato al tempo dei cavalieri di re Artù.

“Dici nella tua autobiografia di esserti formato sulle favole dei fratelli Grimm e sulla Bibbia, ma i tuoi personaggi mi sembrano tutti Alice, ognuno nel suo paese delle meraviglie. La mia preferita è la bambina protagonista di Tideland”.

“Be’, sì adoro Lewis Carroll. E in Tideland, dopo la morte dei genitori, per Jeliza Rose l’immaginazione è l’unico modo per avere a che fare con la vita senza impazzire. La sua fantasia, le sue bambole, sono tutti aspetti della sua personalità, con cui lei costruisce un mondo che man mano acquista senso. E io penso che questo sia ciò che fa l’immaginazione: ci fa sopravvivere”.

“I bambini nei tuoi film sanno usarla in modo incredibilmente consapevole”.

“Oggi tutti considerano i bambini come creature delicate, che si possono rompere per un nonnulla; mentre i bambini sono forti, sono duri. I genitori sono impauriti semmai”.

“Il modo con cui Jeliza Rose muove le dita come se fossero delle creatue animate mi ha ricordato Denny in Shining…”.

“Non c’ho mai pensato. Però è vero…”.

“Ti ho sentito elogiare così tante volte Kubrick che pensavo fosse un omaggio. Anche Kubrick utilizza un meccanismo simile: un’immersione nell’immaginario da cui poi dobbiamo risvegliarci, e alla fine allontanarci se non vogliamo esserne risucchiati. Penso a Shining, per esempio”.

“Ma non tutti i miei personaggi si affrancano da questa prigione dell’immaginario. In Brazil, per esempio, Sam, il protagonista, non ha modo di capire di essere prigioniero della fantasia che ha creato lui stesso, è un sognatore e questo è proprio il modo in cui si salva. Diventa matto pur di non essere punito. Spesso i miei film in questo senso hanno dei finali che sembrano negativi, vedi anche L’esercito delle dodici scimmie, mentre in qualcun altro come La leggenda del re pescatore accade il contrario, c’è un finale positivo”.

Come tutte le autobiografie, Gilliamesque è un grande esorcismo. Una lotta ad armi ovviamente impari contro la morte. Lo è perché l’umorismo che Gilliam ha sviluppato è sempre un umorismo nero: dai Monty Python in poi, la morte è, insieme alla fantasia, il personaggio principale, alle volte anche in ossa senza carne dei suoi film.

In Il senso della vita, Gilliam (qui in veste di attore) ha un corpo a corpo leggendario con il tristo mietitore venuto a reclamare le anime di un gruppo di borghesi snob che sono stati appena intossicati a una cena.

In Gilliamesque, fin dalle prime pagine, è affascinato tanto dal desiderio di beffarla (il 9 settembre scorso, mentre Gilliam era a Venezia, Variety aveva dato per sbaglio la notizia della sua morte e lui aveva replicato sul suo profilo Facebook: “Mi scuso per essere morto. Soprattutto con quelli che hanno già acquistato i biglietti per i prossimi incontri, ma Variety ha annunciato la mia morte. Non credete alla loro smentita e alle loro scuse!”) quanto dalla curiosità di vedere in cosa consiste questo mondo che comprende anche l’aldilà:

A volte la domenica andavamo alla fattoria di un nostro parente, dove guardavamo le galline che continuavano a correre qua e là dopo che gli avevano tagliato la testa. Da bambino è lo spettacolo più entusiasmante del mondo, perché hai l’occasione di vedere, letteralmente, la vita dopo la morte.

Gilliam è come i suoi personaggi che sopravvivono ai disastri più incredibili, a naufragi ed esplosioni come il barone di Munchausen; riescono a escogitare modi per salvare l’umanità dall’estinzione come nell’Esercito delle 12 scimmie; e perfino come gli attori che incredibilmente sopravvivono trasformandosi: come Ledger in Parnassus. Così, quando lo incalzo pensando di fargli la domanda più sinistra, lui non si scompone.

“Ogni autobiografia ha a che fare con la morte, non credo che ne scriverai altre… Qual è il tuo rapporto tra la paura della morte e l’arte?”.

“Io non ho paura della morte, da quando ho dodici anni che provo un senso di familiarità con la morte. Piuttosto ho la paura di non avere abbastanza tempo per finire ciò che voglio finire”.

“Come chiunque, sono un fan dei Monty Python e sono comunque rimasto abbastanza impressionato quando guardai il video della cerimonia funebre di Graham Chapman in cui John Cleese riuscì a far sbellicare tutti anche davanti alla bara di quello che era un suo amico carissimo. O l’altro dello speciale sulla vostra reunion ad Aspen in cui rovesciaste l’urna con le ceneri di Chapman…”.

“La possibilità di superare la morte è quella di poter continuare a riderne. La morte vuole essere presa sul serio, se tu ne ridi, l’hai sconfitta!”.

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Se la paura della morte non sembra toccarlo – “Nel mio testamento ho scritto che voglio essere deposto in una bara di cartone, anche se Maggie continua a insistere per metterci un fiocco blu, e poi seppellito sulla nostra collina in Italia con un alberello di quercia piantato nel petto” – i timori più consistenti riguardano invece due delle questioni che padroneggia meglio: il futuro e il perfido intreccio tra cinema, industria e politica.

Colpisce leggere in Gilliamesque che il regista che consideriamo visionario per eccellenza si ponga il problema di che forma dare ai suoi mondi fantascientifici:

In The zero theorem c’è un cartellone che proclama: ‘Il futuro ormai è passato. Tu dov’eri?’, ma lo stesso valeva anche per noi. Quando abbiamo concluso la lavorazione del film, molte delle idee futuristiche che ci avevamo inserito erano già datate. In pratica avevamo girato un film in costume! Come se il futuro ci corresse incontro più velocemente di quanto noi ci avviciniamo a lui.
Credo che sia stato lo scrittore William Gibson ad affermare che l’accumulo di dissonanza cognitiva globale ha ormai raggiunto livelli tali che rischia di rendere ridondante l’idea tradizionale di fantascienza. E una volta arrivati alla mia veneranda età, le singole giornate diventano molto lunghe, mentre gli anni si fanno via via più corti, e questo non fa che distorcere ancora di più la prospettiva temporale.

Colpisce perché il problema di un futuro prevedibile, di un immaginario non sorprendente, non perturbante, è il vero cruccio che Gilliam cova rispetto alla propria idea di cinema, e che spiega anche il suo altalenante rapporto con Hollywood, e di una terra nata con il mito della frontiera come gli Stati Uniti.

“In una tua intervista metti a confronto Spielberg e Kubrick e citi un giudizio di Kubrick tagliente su Schindler’s list, ossia: ‘Schindler’s list è un film sul successo e l’olocausto parla di fallimento’…”.

“Sì, Kubrick ogni volta apre delle domande, Spielberg dà delle risposte. E le risposte sono stupide”.

“E tu come hai fatto a non essere corrotto da Hollywood?”.

“Io sono uno facile da corrompere, ah ah… E i film che ho fatto a Hollywood sono stati i più semplici che ho fatto perché avevo abbastanza denaro. Ma il problema con i film hollywoodiani è che tendono a confortare le persone. E io non voglio che le persone si sentano confortate”.

“Sei diventato diffidente non solo di Hollywood ma anche dell’America…”.

“Sì, sono diventato inglese, ho preso la cittadinanza britannica, dopo aver vissuto in Inghilterra per 40 anni e pagato le tasse negli Stati Uniti. Ma poi ci sono state le elezioni di George W. Bush, e l’11 settembre, e Guantanamo, e non potevo sopportarlo. Sono cresciuto come americano. Sono cresciuto ottimista, ma non sono ottimista, perché le cose vanno male, a un certo punto ho smesso di credere nel lieto fine”.

“C’è un aneddoto in Gillamesque che ti ha raccontato Burt Reynolds, che va a trovare Ronald Reagan e sua moglie alla Casa Bianca, e loro due si comportano come due pagliacci, e Reynolds alla fine dice che la politica americana è ancora più falsa di Hollywood”.

“Sì, penso che sia tutto fasullo, la maggior parte dei politici non ha un potere reale, il potere è nelle mani delle multinazionali, e quindi sono ridotti a performer. E per questo sono interessanti”.

“E che cosa ti piace del Regno Unito invece? Mi ricordo quando lessi in The Pythons’ autobiography by the Pythons il racconto della prima volta che vi incontraste, tu statunitense e i cinque britannici. Eravate tutti diffidenti e vi consideravate reciprocamente stupidi…”.

“Però io ero anglofilo. Nel Regno Unito c’era un grande impero, e in pochi anni crollò. E come ha reagito questa società? Hanno cominciato a scherzare un po’ di più su di sé. Hanno adottato l’autoironia. Molta della comicità americana invece è aggressiva e rivolta all’esterno. Ridono di una certa persona, non di se stessi, non sono capaci di ridere di se stessi. Per questo io preferisco la comicità britannica, mi fa sentire più sicuro. Hanno perso il loro impero e sono ancora vivi!”.

Nel libro collettivo dei Monty Python a un certo punto si legge:

Volevamo sbarazzarci della ‘battuta finale’, spiega Graham Chapman. Per anni la gente era stata a creare ‘battute finali’, compresi noi. Era ora di dire basta. Il produttore sembrava abbastanza perplesso che non ci fossero ‘battute finali’. Diceva ‘Okay ma come facciamo a finire se non diciamo al pubblico che deve applaudire alla battuta finale?’.

“Ecco, la comicità dei Monty Python è stata rivoluzionaria per molte ragioni. Una è sicuramente perché avete eliminato la punch-line, la battuta finale negli sketch…”.

“Sì, la facevano tutti, anche geni come Dudley Moore, ma per noi era una delusione ogni volta, rendeva flosci gli sketch, era prevedibile”.

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“Che ne pensi della comicità contemporanea?”.

“Non faccio analisi. C’è quello che fa ridere e quello che non fa ridere. Ma oggi c’è una correttezza politica maggiore, perché tutti hanno paura di offendere qualcuno. Ma la comicità è offendere qualcuno”.

“Con i Python cercavi di rompere il tempo della battuta. Il tuo ruolo era quello di rompere la narrazione degli sketch”.

“Il mio ruolo era di rompere ma anche di mettere in connessione. E di trovare un linguaggio universale. Penso che negli Stati Uniti i Monty Python abbiano avuto successo perché i miei cartoni non erano parlati, erano visuali, così poteva capirli anche un americano un po’ tonto… Tutti usavano la battuta finale, comici che piacevano moltissimo come Dudley Moore, facevano sketch brillanti, ma alla fine ti lasciavano una sensazione di delusione. Per questo abbiamo provato con i cartoni animati e ha funzionato”.

“Dopo l’insuccesso del Barone di Munchausen, finito in una disputa tra la casa di produzione e la compagnia assicuratrice, sei molto più coinvolto in tutti gli aspetti della produzione. Dalla musica al montaggio…”.

“Be’, se nei miei film non avessi controllato la musica, sarebbe stato come far crescere mio figlio a uno sconosciuto. Metti con Brazil, ho affidato la colonna sonora a Michael Kamen. Io volevo che la canzone omonima fosse centrale, lui non voleva. Ma poi quando vide il premontato si convinse. Non so cosa avesse funzionato, perché non ho un approccio intellettuale ai film”.

“E questo controllo… Quando il film è in sala, non ti viene mai il desiderio di rimontarlo?”.

“Sì, ma può essere anche un rischio, avere troppo controllo. Parnassus, per esempio, è stato montato troppe volte, e a un certo punto si perde l’obiettività dello sguardo… Ma non credo al director’s cut, perché altrimenti, per esempio, ne avrei cinque diversi di Brazil”.

“E cosa dici del fatto che il cinema non si guarda più nelle sale, che la fruizione del cinema è diffusa?”.

“Io mi sono formato con Buñuel, Kurosawa, Fellini, guardando retrospettive, oggi puoi vedere tutto. Evviva! Non devi andare a una scuola di cinema. Ma l’importante è non copiare come quelli che si mettono davanti a una tela di Rubens. Io non guardo i film come li guardano Spielberg o Lucas, loro li copiano; io preferisco lavorare sulla memoria del film, di ciò che ho visto”.

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