Un paio di giorni fa, di notte, a Roma è morto Andrea G., un cittadino polacco che viveva nei giardinetti di piazza Primoli, tra la parrocchia di San Mattia e il nuovo Carrefour aperto h24; probabilmente un arresto cardiocircolatorio. Aveva moglie e due figli, con cui era arrivato in Italia anni fa, ma si era separato e non li vedeva da tempo. Ho cercato la notizia sui giornali ma non c’era, nemmeno sotto uno di quei titoli un po’ eufemistici che ammantano i senza fissa dimora dell’aria postromantica dei clochard. In compenso c’erano vari trafiletti – uno su due tizi che hanno provato a dar fuoco a una donna che beveva con loro (un giorno fa), un altro su una donna che aveva partorito in strada (una settimana fa), e vari sui “cittadini infastiditi dai barboni” (seriali).

Di morti simili a Roma ce n’è una a settimana se non di più, alcune non vengono registrate nelle statistiche, perché per esempio avvengono in ospedale dopo qualche ora dal ricovero d’emergenza.

Per il resto sono morti impensabili. Per ipotermia, per una bronchite che degenera. Non solo di notte: anche di giorno, si muore di febbre petecchiale, per esempio, semplicemente seduti su una panchina, come è accaduto a Lubomir Bistrianski, qualche anno fa, sempre a piazza Primoli.

Delle persone che Andrea conosceva, un paio sono morte proprie nell’ultimo anno, a distanza di qualche mese l’uno dall’altra. Vivevano entrambi sotto “lo stradone”, il viadotto Giovanni Gronchi che collega Talenti con Vigne Nuove. Uno di loro si chiamava Jaroslaw ed è morto carbonizzato; beveva moltissimo e ultimamente aveva cominciato a bere alcol denaturato a 90 gradi. Un pomeriggio gli si è rovesciato sul materasso mentre aveva una sigaretta accesa e ha preso fuoco. Il suo corpo è ancora nell’obitorio dell’ospedale Gemelli. Il consolato in questi casi – se non sei un criminale noto o un politico famoso – non si dà molto da fare per cercare di contattare i familiari.

Un’altra donna, Maria, era entrata e uscita molte volte dagli ospedali per problemi legati all’alcolismo; l’ultima aveva rifiutato il ricovero, ed è morta poche ore dopo.

I senza fissa dimora a Roma sono circa ottomila. Ma le strutture che se ne occupano sono evidentemente insufficienti

Spesso queste persone sono stranieri, non hanno i documenti, e i loro corpi senza riconoscimento rimangono nella camera mortuaria fino a un anno e un giorno, ossia fino al limite di legge dopo il quale il comune o qualche associazione come la Comunità di sant’Egidio si occupa del funerale e della sepoltura. Senza le famiglie, i consolati non fanno ricerche. Di qualcuno non si sa nemmeno la data di nascita e quando viene sepolto gli si mette solo una croce col nome che si spera sia veramente il suo.

I senza fissa dimora a Roma sono circa ottomila. Ma le strutture che se ne occupano sono evidentemente insufficienti. Non ci sono abbastanza posti letto, nemmeno nei periodi di emergenza freddo. Non esiste un protocollo sanitario adeguato, e spesso i pronto soccorso si trovano a gestire delle situazioni limite in cui è difficile distinguere la ricerca di un posto dove passare la notte dalla reale emergenza medica.

Un ruolo insostituibile – di presa in carica ma anche di informazione – a favore dei senza fissa dimora a Roma lo svolgono da decenni la Comunità di sant’Egidio e la Caritas, come è chiaro in un dossier pubblicato qualche mese fa. Se non ci fossero, la situazione sarebbe un disastro molto peggiore di quello che già è. La supplenza rispetto alle istituzioni pubbliche si è di fatto trasformata in sostituzione.

Quelli che trovano da dormire in parrocchie o centri religiosi sono circa duemila; il comune provvede ad altri cinquecento posti, il resto o dorme in luoghi di fortuna, edifici abbandonati, baracche oppure all’addiaccio.

L’impressione è che se è facile scivolare verso la condizione di vita per strada e rimanerci

La Comunità di sant’Egidio è l’unica realtà che riesce almeno parzialmente a mappare le presenze e a tentare di tamponare le emergenze più gravi. Ogni anno alla fine di gennaio ricorda le persone morte per strada con una messa dedicata a Modesta Valenti, una donna morta nel 1983 alla stazione Termini – c’è una targa a suo nome molto nascosta vicino al binario uno. Viveva alla stazione, si sentì male, l’ambulanza non volle prenderla a bordo perché era piena di pidocchi, morì dopo poco.

A lei non è dedicata solo una messa, ma anche un progetto di cittadinanza inclusiva. Ossia un indirizzo civico – “via Modesta Valenti” – che dal 2002 può essere utilizzato come residenza virtuale da tutti coloro che non ne avevano una fisica e che ne avevano bisogno per fare documenti, per ricevere posta, eccetera.

Nella realtà però da un anno poter fruire della residenza di via Modesta Valenti è quasi impossibile. Occorre produrre una documentazione di una precedente residenza: ovviamente quasi nessuno che vive per strada riesce ad averla, o se la ha non ha molto bisogno di una residenza virtuale.

A rendere complicata l’assegnazione di una residenza virtuale a via Modesta Valenti è stato l’abuso che se n’è fatto in questi quasi quindici anni. Delle più di 11mila richieste pervenute al comune, alcune erano di persone che cercavano semplicemente di aggirare il fisco e utilizzavano l’escamotage di “abitare” a via Modesta Valenti per non farsi trovare dall’agenzia delle entrate. E oggi le persone che realmente ne hanno bisogno ne pagano le conseguenze.

L’impressione è che se è facile scivolare verso la condizione di vita per strada e rimanerci (i dati Istat nell’ultimo anno segnano un prolungarsi dei tempi medi), lo è anche perché le iniziative di sostegno e di contrasto sono davvero pochissime.

In piena campagna elettorale per le comunali di Roma – per cui non si sa ancora la data del voto, ma che è già entrata nel vivo con dichiarazioni roboanti su progetti per le Olimpiadi e complotti politici – è davvero triste che nessuno stia mettendo al centro del dibattito questo tema. Che poi non è semplicemente un tema, ma riguarda la vita difficile e la morte e addirittura la degna sepoltura di alcune persone.

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