La fantascienza italiana ha sempre avuto un problema serio, storico. Che è quello sintetizzato da Carlo Fruttero e Franco Lucentini – tra i più importanti divulgatori della narrativa di genere in Italia fin dagli anni sessanta – con una formula rimasta celebre: “Un disco volante non può atterrare a Lucca”.

Niente astronavi a Isernia, mutanti a Gorizia, androidi ad Andria – come sarebbe bello chiamare un romanzo pugliese alla Asimov. Se poi puta caso qualche marziano viene fatto veramente catapultare in Italia, il destino peggiore che gli possa capitare è quello di precipitare a Roma. Nel 1960 Ennio Flaiano immaginò il disastro nella farsa Un marziano a Roma (qui il testo integrale). All’inizio la città può anche impazzire:

Tutta la popolazione della periferia si è riversata al centro della città e ostacola ogni traffico. Debbo dire che la gioia, la curiosità è mista in tutti ad una speranza che poteva sembrare assurda ieri e che di ora in ora si va invece facendo più viva. La speranza ‘che tutto cambierà’.

Ma già pochi istanti dopo si vede che “Roma ha preso subito l’aspetto sbracato e casalingo delle grandi occasioni”. Nel giro di qualche mese il marziano – che aveva cominciato la sua avventura terrestre a forza di dichiarazioni solenni e incontri con il presidente della repubblica – si ritrova invischiato tra noiose occasioni mondane e aperitivi con intellettuali boriosi, a racimolare qualche lavoretto: “Una particina da marziano nel nuovo film di Roberto Rossellini”. Finché nelle giornate pigre di Natale mentre attraversa la strada,“nel grigio silenzio, qualcuno ha gridato forte: ‘A marziano!…’. Il marziano si è subito voltato ma ancora una volta il silenzio è stato rotto e stavolta da un suono lungo, straziante, plebeo”.

Va così per i marziani. Questa città è la più abitudinaria del mondo, non è indulgente con chi viene dal futuro a sconvolgere il suo tramestio di passioni effimere e indolenti. Al massimo può accettarlo l’estraneo, inglobarlo, lasciarlo vivacchiare. Alla fine il marziano di Flaiano scruterà con nostalgia il suo pianeta rosso a fluttuare lontanissimo nel cielo romano; ma non è nemmeno detto che possa ritornarci, perché è difficile che riesca a “riavere l’aeronave, che gli albergatori hanno fatto, si dice, pignorare”.

Un corpo respingente

Mi sono chiesto più volte se l’ex sindaco Ignazio Marino l’avesse letto questo racconto di Flaiano e se l’avesse ben presente, finale compreso, mentre per tutto il suo mandato si autoproclamava, per conquistare il consenso dei romani, il sindaco marziano. Davvero non aveva capito che qui da noi, tra le automobili in doppia fila e i lavori pubblici che non finiscono mai, gli extraterrestri non fanno una bella fine?

E la ragione non è difficile da intuire: Roma è una città retroscopica, tutta rivolta all’indietro. Andrea Giardina e André Vauchez nel loro saggio Il mito di Roma ce l’avevano ben chiaro: il suo orizzonte la pone nel passato. Nel mito dell’impero, della repubblica, del palazzo, del papato. A una città che si dice eterna, in cui le rovine sono la trasfigurazione della sua bellezza, cosa vuoi che freghi del futuro?

I racconti di fantascienza classica ambientati a Roma sono poche chicche per cultori, come Noi due soli (1952) di Marino Girolami, Marcello Marchesi e Vittorio Metz; L’ultimo uomo della terra (1964) di Umberto Ragona, tratto dal racconto di Richard Matheson Io sono leggenda; La decima vittima (1965) di Elio Petri, tratto da La settima vittima, racconto di Robert Sheckley. Quali altri potrebbero essere citati?

Il futuro è un corpo respingente per questa città. A meno che. A meno che l’immaginario avveniristico provi a insinuarsi camuffato, e assuma l’unico tono possibile per raccontare credibilmente Roma: quello della commedia, della commedia amara o almeno claudicante. È ciò che ogni tanto riesce a qualche artista: a Stefano Tamburini quarant’anni fa con il suo Ranxerox, più di recente a Tommaso Pincio con il suo Cinacittà. L’ultimo che l’ha fatto in modo esemplare è Gabriele Mainetti con il suo Lo chiamavano Jeeg Robot.

Roma non è una città che ti lascia in pace, e se sei nato in periferia non ti puoi sottrarre facilmente a quel che qui si chiamano ‘gli impicci’

L’idea perfetta di Mainetti è quella di piazzare un supereroe a Tor Bella Monaca. L’intuizione l’avevano avuta già almeno un altro paio di film recenti, purtroppo senza successo: Tutta la conoscenza del mondo di Eros Puglielli (che ci aveva ancora prima provato nella scena del combattimento dei fratelli Riccio nel suo esordio Dorme) e L’arrivo di Wang dei fratelli Manetti. Nel primo una misteriosa pioggia di luce dal cielo calava su una stazioncina alla periferia di Roma salvando due persone da un treno in corsa, nel secondo gli extraterrestri erano invece ostili e volevano distruggere la città eterna. Erano due film sublimi, ma sghangherati.

Nel caso di Jeeg Robot Mainetti invece non sbaglia nulla. Sa bene di avere a disposizione una scenografia naturale: una città abbrutita diventata un’infinita borgata, vittima di un’edilizia selvaggia, e popolata da coatti che oscillano tra solitudini depressive e socialità maniacali.

E invece di alienare lo sguardo – come hanno fatto, per esempio, Gianfranco Rosi in Sacro Gra o Paolo Sorrentino nella Grande bellezza, cercando una magia nei dettagli, negli interstizi, che sia la melanconia dell’agro romano intorno al raccordo anulare, o l’olimpico splendore di una città che può fare quasi a meno degli umani – Mainetti accetta di farsi contagiare da quest’alterazione psichica, e di farne anzi un’epopea. Ama il caos, e immagina uno scenario cittadino sconvolto da una criminalità diffusa e invisibile, più evanescente e sconnessa di quella di Suburra, e da una psicosi collettiva da attentati imminenti.

Budini alla vaniglia

Impermeabile a tutto questo è Claudio Santamaria ossia Enzo Ceccotti, un accattone contemporaneo, un solitario drop-out imbambolato, nato e cresciuto nella R3 – i casermoni di Tor Bella Monaca – che vivacchia come può, entrando e uscendo dalla galera, orfano di affetti; i suoi amici di ragazzino sono morti uno dopo l’altro. Fuggendo dopo un furto finito male, cade nel Tevere, inquinato da scorie radioattive; e quando riemerge dalle acque limacciose, si ritrova dotato, come il più classico dei supereroi, di una resistenza e di una forza mostruose.

Lui non cambierebbe la sua vita avvilente di una virgola, se non usando questa potenza da Hulk per trovare più facilmente i soldi che gli servono per i suoi unici bisogni: scassinare i bancomat per procurarsi vasetti di budino alla crema e dvd porno, nella prospettiva di infinite giornate casalinghe.

Ma Roma non è una città che ti lascia in pace, e se sei nato in periferia non ti puoi sottrarre facilmente a quel brulicare di furtarelli, piccoli spacci, risse, ricatti, che qui si chiamano “gli impicci”.

Soprattutto se in questi impicci è coinvolta una vicina di casa, che è una ragazza ingenua e mezza matta: una che per resistere al trauma della morte della madre e delle violenze sessuali del padre, da anni crede di vivere nel mondo di Jeeg Robot d’acciaio, e che quando incontra Enzo Ceccotti, supereroe cinico e scazzato, pensa che lui sia Hiroshi Shiba e che “il giorno delle tenebre è vicino”.

Mainetti ha indovinato un cast di attori che non gigioneggiano

Il resto del film è puro piacere della narrazione e del cinema d’azione. Mainetti gira in modo avvolgente e carico, ma senza strafare; sfrutta la fotografia di Michele D’Attanasio per rendere la città fumettistica ma non bidimensionale.

E ha indovinato un cast di attori che non gigioneggiano, in primis Luca Marinelli capace di dare corpo a un cattivo riuscitissimo, lo Zingaro: ghigno da joker impunito, piccolo criminale con manie di grandezza, lacerato da una violenza incontrollabile, un’ossessione per l’igiene (il suo lavarsi in continuazione le mani con l’amuchina è un gran tocco di sceneggiatura) e la passione per l’estetica da Muccassassina e la musica degli anni ottanta.

Frustrato nelle sue velleità di raggiungere la fama (ha provato da giovane a fare il personaggio a Buona domenica), Zingaro è alla perenne ricerca – come in qualunque mitologia romanesca – di una svolta, del colpo che gli faccia fare il botto, e che lo tiri fuori finalmente dal covo della sua banda di delinquentucoli, un canile fetente.

Quello che non era riuscito fino in fondo a un altro film di interessanti ambizioni come il Ragazzo invisibile (2014) di Gabriele Salvatores scritto dal terzetto Rampoldi, Fabbri, Sardo – ossia fare un convincente film italiano su un supereroe – qui a Mainetti riesce benissimo per un motivo semplice: comprende che la fantascienza ha un senso solo se riesce a essere una spietata narrazione sociale. La trasformazione in supereroe può avvenire se ha in sé anche una motivazione di riscatto.

Alabarda spaziale e Brigate rosse

Enzo Ceccotti non ha in animo grandi imprese, vuole solo una relazione sentimentale normale, un reddito decente e dei quartieri vivibili dove abitare, un po’ come i supereroi italiani raccontati da Silvestro Ferrara in un libretto brillante di qualche anno fa, Superveri supertosti supergiusti.

In più la visione di Mainetti, nato nel 1976, è quella di una generazione che ha avuto come sua formazione principale la teledipendenza, e che ha imparato a leggere la realtà esterna attraverso le categorie dei cartoni animati giapponesi – a partire dai lavori di Go Nagai.

La poetica di Lo chiamavano Jeeg Robot, lungi dall’essere solo un giochino postmoderno ludico, è quella che già avevano elaborato Daniele Timpano nel meraviglioso spettacolo del 2005 Ecce robot o Claudio Morici nel romanzo di culto del 2007 Actarus. Quella che Timpano definisce “generazione goldrake” o un libro di Alessandro Aresu “generazione Bim Bum Bam” non è stata solo una classe di bambini affascinati dagli anime, rincitrulliti davanti allo schermo, ma di spettatori che hanno ascoltato le grida di “alabarda spaziale” insieme ai comunicati delle Brigate rosse, e che diventati adulti sanno pensare a come il mondo potrebbe essere cambiato, rovesciato, a partire dall’impatto di quell’immaginario, e dal détournement di una realtà sociale troppo immobile.

Ex bambini, che al contrario di quello che capita molto spesso in Italia, hanno imparato a sviluppare un’idea di futuro.

Quello che Philip K. Dick ha fatto per Los Angeles o James Ballard ha fatto per Londra, nessuno ha avuto il talento per farlo con Roma. Lo chiamavano Jeeg Robot è un gran film che va in questa direzione.

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