Capita che gli studenti del primo anno di lettere non abbiano letto più di tre o quattro libri seri in vita loro, che non sappiano come finiscono I promessi sposi (si sposano? Non si sposano? Muoiono una sulla tomba dell’altro?) o la Commedia (vede Dio? Non lo vede? Lo vede “in un certo senso”?), però sanno quasi sempre che cos’è una metonimia (o sineddoche). È “la parte per il tutto”: bere un bicchiere, fare quattro passi. La maggior parte sa anche che cos’è un’anadiplosi, un poliptoto; i più studiosi arrivano alla prosopopea, all’ipallage.

Credevo che fosse una perversione italiana, una mania della scuola italiana, questa devozione alle figure retoriche, poi l’altro giorno, su una metro francese, ho visto una ragazza sui sedici anni che si girava tra le mani un mazzo di cartoncini con sopra scritto aposiopèse, énallage, litote, paronomase, e dietro le definizioni. Era mattina presto, e la miscela di sonno e di sforzo per ricordare tutti quei nomi astrusi dava alla ragazza un’aria teneramente ebete: più che suggerirle le risposte avrei voluto abbracciarla, rassicurarla, farle capire che non c’è niente di male a non ricordarsi cos’è una aposiopesi, io non me lo ricordo mai, non sono cose importanti.

O lo sono?

Per dirla in modo molto semplice, cioè senza tutti quei giri di parole da camminatori sulle uova che di solito si usano quando si parla di scuola, ho l’impressione che a scuola si dia un po’ troppa importanza alla forma dei testi che si leggono (a pezzettini) e un po’ troppo poca al loro contenuto.

Il problema della letteratura

Questa sproporzione dipende, a mio modo di vedere, da due ragioni principali. Da una parte, nel corso dei decenni ha finito per depositarsi nelle scuole una versione estremizzata di quella che chiamerei l’idea universitaria di letteratura: l’idea cioè che la letteratura sia un “problema” (Il problema dei Canti di Leopardi, Le problematiche del decadentismo eccetera), e che questo problema vada risolto come si risolvono i problemi: attraverso l’analisi (dei Canti di Leopardi, delle poesie di d’Annunzio) e, soprattutto, attraverso la considerazione del suo specifico (lo specifico letterario, la letterarietà), uno specifico che si lascia decifrare solo mediante l’applicazione di un Metodo (anzi di una pluralità di Metodi), Metodo che libera il campo dalle letture ingenue (l’ingenuità essendo il più grave dei peccati, per l’idea universitaria di letteratura) e al loro posto mette dei protocolli, delle procedure d’analisi che all’occorrenza possono essere sintetizzate per punti (“Fai prima questo… poi questo…”), e soprattutto un metalinguaggio, un gergo adatto a dar conto della corretta applicazione di queste procedure d’analisi. Appropriatosi del gergo, applicati correttamente i metodi (detti anche “metodologie”), lo studente ha risolto il problema della letteratura.

Ora, questa idea universitaria della letteratura ha, per buona sorte, sempre meno presa là dove è nata qualche decennio addietro: nelle università. Non è detto che le idee più fresche siano anche idee migliori, ma oggi chi si occupa seriamente di letteratura non cerca di spiegare Guerra e pace con i grafici e le freccine, e non si mette a glossare in classe la teoria delle funzioni del linguaggio di Jakobson o la semantica strutturale di Greimas, e nemmeno L’avviamento all’analisi del testo letterario di Segre. Accade però che questa idea universitaria della letteratura, che l’università nel frattempo ha lasciato cadere, abbia ancora un’influenza cospicua sul modo in cui si studia la letteratura nelle scuole, un po’ per la vischiosità delle mode culturali e un po’ perché provvede gli insegnanti e gli studenti di un piccolo bagaglio di nozioni (e anzitutto di nomi) che possono essere trasmesse, mandate a memoria, ripetute a richiesta.

Non bisogna pensare che per capire i libri occorra trattarli come i biologi trattano i loro campioni di tessuto

“Che cosa pensava Manzoni degli esseri umani?” o “Che cosa pensi di ciò che Manzoni pensava degli esseri umani?” sono domande alle quali non si applica l’alternativa giusto/sbagliato, sono domande che sollecitano, più che le conoscenze degli studenti, la loro capacità di giudizio, la loro intelligenza: e naturalmente è molto più difficile (e rischioso) valutare l’intelligenza che le conoscenze, anche se queste conoscenze sono, in fondo, irrilevanti. L’alternativa giusto/sbagliato si applica invece perfettamente alla domanda “Questo romanzo è a focalizzazione interna oppure no?”. L’apprendimento scolastico per come lo concepiamo – e cioè come un insieme di nozioni e concetti da introdurre nella mente degli studenti in un determinato lasso di tempo – ha bisogno soprattutto di cose che possono essere chieste in un’interrogazione, e in questo senso le etichette della narratologia funzionano tanto bene quanto l’anadiplosi, o i termini della metrica, o le parole-contenitore che costellano le storie letterarie (stilnovo, pessimismo cosmico, Gruppo ’63 eccetera).

Questo però non basta. Perché, nozioni per nozioni, basterebbe chiedere le date, come si faceva una volta, al tempo appunto del nozionismo. Nel nozionismo della focalizzazione, dell’anadiplosi, delle rime inclusive c’è qualcosa di più, e cioè l’idea che per capire i libri occorra scomporli, sezionarli, e trattarli insomma un po’ come i biologi trattano i loro campioni di tessuto e i geometri le loro proiezioni ortogonali. Dietro, c’è sempre l’idea della letteratura come scienza, e del possesso di determinate nozioni (focalizzazione, anadiplosi, rima inclusiva) come dello stigma virtuoso che distingue lo scienziato della letteratura dal lettore ingenuo.

Mille balbettii

In parte, questo è ovviamente vero. Possedere la nomenclatura di una disciplina – e sotto questo aspetto la letteratura vale quanto la fisica o l’economia – serve non soltanto a non dover indicare le cose con un dito ma anche a far risaltare determinate cose (usi metrici o retorici, tecniche narrative, correnti culturali) nel novero delle cose consimili. Il nome non inventa la cosa, ma certamente la mette a fuoco. Dovrebbe essere chiaro, però, che – negli studi letterari come in quelli scientifici – la competenza sui nomi è secondaria rispetto alla conoscenza delle cose: il linguaggio, i testi, le idee degli scrittori, il loro mondo. Mi capita un po’ troppo spesso di incontrare matricole di lettere che sanno più o meno cos’è, tra mille balbettii, la retrogradatio cruciata, cioè quello strano artificio metrico che regola la successione delle rime nella sestina (un genere metrico marginalissimo nella poesia due-trecentesca: ce ne saranno meno di venti esemplari, in un corpus di migliaia di testi), ma non sanno che cos’è la Vulgata, o ignorano chi fosse Tommaso d’Aquino, o hanno bisogno del vocabolario per “tradurre” parole come alma, calere, speme. Oppure sanno in quale canto della Commedia, in quale cerchio e in quale bolgia stanno gli incontinenti, solo che non hanno idea di cosa voglia dire incontinenti.

Nel testo più limpido e piano finiscono per trovarsi complicazioni mai viste, enigmi insondabili

Tutto questo non è sbagliato in sé: che male c’è a sapere cos’è un’anadiplosi? Ma diventa sbagliato se mette nella testa degli studenti la convinzione che i romanzi, i saggi, le poesie (soprattutto le poesie!) non siano dei messaggi che qualcuno ci ha spedito anni o secoli fa, messaggi che vanno ascoltati, compresi, giudicati, apprezzati per la loro bellezza o verità, ma degli strani, minacciosi marchingegni di cui importa soprattutto smontare gli ingranaggi per vedere come sono fatti dentro. Somiglia un po’ alla sindrome descritta (con compiacimento, ahimè, non con preoccupazione) da Carlo Levi in Il futuro ha un cuore antico, quando racconta di una sua conferenza a Mosca e del commento di un giovane lettore sovietico di Cristo si è fermato a Eboli: “Non gli riesce ancora, dice, di inquadrarlo bene, di sistemarlo come ‘genere letterario’: la sua ‘fabula’ è semplice, le idee nascono direttamente dalle vicende, sono raccontate con sinteticità: gli stessi caratteri che egli ha riscontrato nei film italiani. Questo è molto bene. Si riserva di studiarne meglio ‘l’officina’. Lo rileggerà e lo analizzerà a fondo, sistematicamente, per scoprirne l’interno meccanismo”.

Ora, le “analisi sistematiche” volte a scoprire gli “interni meccanismi” raramente si concludono con l’ammissione che non c’era niente di interessante da scoprire: se c’è la domanda, ci sarà anche la risposta. Si fa strada, in questo modo, un’idea laboratoriale, alchemica della letteratura, l’idea per cui ogni minimo dettaglio diventa una traccia per decifrare chissà quale verità nascosta, e ogni inezia viene semantizzata. Naturalmente, il close reading è una giusta strategia, se mantenuta entro i limiti del ragionevole e se condotta da persone che abbiano letto molto, cioè che abbiano dimestichezza non con i metodi e il loro gergo, ma con i libri. Ma il close reading predicato agli adolescenti finisce per diventare un’istigazione al parlare a vanvera. Obbligati non a leggere ma ad analizzare, non ad analizzare ma ad analizzare in profondità i brani antologici, gli studenti vengono presi da una foga interpretativa che ricorda un po’ quella dei critici strutturalisti più ingenui e spiritati, quelli che, abbacinati da Jakobson, non chiudevano il libro finché non erano riusciti a semantizzare i fonemi, i punti e virgola.

Così, nel testo più limpido e piano finiscono per trovarsi complicazioni mai viste, enigmi insondabili, arabeschi degni della Settimana Enigmistica, una specie di gioco al rialzo nel quale vince chi osserva il suo vetrino col microscopio più potente, anche al prezzo delle traveggole. In Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono “l’allitterazione della esse vuole esprimere la solitudine del poeta”; in Tanto gentile e tanto onesta pare “il suono delle vocali aperte imita l’incedere solenne della donna amata”; e nel più limpido paragrafo della Cognizione del dolore affiorano, naturalmente, “il plurilinguismo e il pluristilismo gaddiano”. Non sono esempi inventati.

Naturalmente non si tratta di abolire il momento dell’interpretazione, e del confronto delle interpretazioni. Dato che leggere serve in primo luogo a far riflettere, è più che giusto che gli studenti siano messi di fronte ai pareri di lettori più esperti di loro. Ma l’idea universitaria della letteratura finisce spesso per sostituire i discorsi sui testi (o sui contesti) ai testi, e le etichette ai contenuti che quelle etichette vorrebbero classificare. Invece, è meglio passare molto tempo a leggere qualche poeta stilnovista o qualche scrittore romantico che a ragionare su “Che cos’è lo stilnovo” e “Che cos’è il romanticismo”. In questo senso, il caso Leopardi è esemplare. Come ha scritto Clizia Carminati qualche tempo fa su Internazionale, al nome di Leopardi si associa quasi sempre, con riflesso pavloviano, la parola pessimismo:

Leopardi usa una sola volta la parola pessimismo, nello Zibaldone, e al negativo. Eppure, digitando in Google ‘Leopardi pessimismo’, escono 683mila risultati. Il primo sito della lista è Wikipedia, il secondo Tutto Leopardi in 10 pillole. Tutti gli studenti o quasi sanno che Leopardi attraversa varie ‘fasi di pessimismo’ […]: individuale, storico, cosmico; seguite (le fasi) da una quarta eventuale, nota solo ai più preparati: quella del ‘pessimismo eroico’. Peccato che questa vulgata non sia che il distillato di una tradizione critica ormai assimilata (e propinata) senza più leggere quel che ha scritto Leopardi. L’esigenza (o ossessione) di semplificare e rendere pronto all’uso, spendibile (’in termini di conoscenze, competenze, abilità’, come recitano gli ‘obiettivi formativi’), ciò che è per sua natura complesso, cioè un testo letterario, ha prodotto un’incomprensibile tendenza a prediligere lo studio della ‘critica’, quella che tecnicamente si chiama ‘bibliografia secondaria’, rispetto alla lettura diretta dei testi, o ‘bibliografia primaria’.

A queste osservazioni di Clizia Carminati posso aggiungere un aneddoto personale. Al capitolo su Leopardi del mio manuale di letteratura per le scuole superiori (Cuori intelligenti, Garzanti Scuola 2016) ho lavorato con uno dei migliori conoscitori del nostro ottocento, Emilio Torchio (in realtà è vero il contrario: sono stato io il suo collaboratore, non lui il mio). Né lui né io volevamo parlare di pessimismo cosmico, storico e affini. Ma – ci hanno fatto osservare – nelle antologie scolastiche il pessimismo storico non può non esserci. Allora abbiamo scritto una scheda nella quale abbiamo spiegato che Leopardi non ha mai davvero adoperato queste formule, e che il responsabile della semplificazione è stato uno studioso di un secolo fa, Bonaventura Zumbini. Cito dal manuale:

Uno dei primi interpreti di Leopardi, Bonaventura Zumbini, parlò, nei suoi Studi sul Leopardi (1902-1904), di ‘pessimismo storico’ leopardiano, distinguendolo da un successivo atteggiamento che egli stesso chiamò ‘pessimismo cosmico’. Naturalmente, le etichette contano poco, nella ricostruzione del pensiero di un autore, e soprattutto di un autore tanto complesso come Leopardi. Ma queste due etichette hanno avuto fortuna, nella storia della critica, e sono servite a fissare, in maniera certamente troppo schematica, la trasformazione a cui va incontro la visione della vita di Leopardi poco dopo i vent’anni.

È tutto chiarito, tutto spiegato come si deve, ma non mi faccio illusioni: ho poche speranze che il “pessimismo storico/cosmico” possa essere espulso dalle menti degli italiani che vanno a scuola (un po’ come, mi dice un’amica medievista, è quasi inamovibile, nei manuali di storia, l’idea fasulla della “piramide feudale”). La morale? La morale è che bisogna fare l’uso più discreto possibile di quelle scorciatoie per il pensiero che sono le categorie critiche o storiografiche, e che un tema dal titolo “Parafrasa verso per verso questa poesia e commentala con parole tue” va bene, mentre un tema dal titolo “Il tramonto della luna di Leopardi appartiene al periodo del pessimismo storico o a quello del pessimismo cosmico?” non va bene, perché trasforma in una cosa reale quello che invece è soltanto un modo di dire.

I libri non servono a riempire caselle

Un ragionamento simile vale – per tornare al punto da cui siamo partiti – per la nomenclatura metrica e retorica. Saper parafrasare Dante è importante, perché significa padroneggiare l’italiano antico, e quindi potersi accostare alle idee e ai sentimenti che Dante ha espresso nei suoi libri senza mediazioni: ascoltare direttamente la sua voce. Invece, mandare a memoria come funziona la retrogradatio cruciata non è importante, perché è un’informazione che non aggiunge quasi niente alla nostra comprensione della poesia, un’informazione che può essere trovata senza sforzo nei libri, o in rete. E sapere che “il divino del pian silenzio verde” è una sinestesia è irrilevante, è solo un modo per riempire una casella.

Ma perché bisogna riempire le caselle? Non vedo altra risposta se non: “Per rispondere bene all’interrogazione”. Non credo sia una buona risposta, ma è la risposta che spiega e giustifica, nei libri di testo, le ‘mappe concettuali’, le tabelle riassuntive di fine capitolo, le sintesi per parole-chiave (tutte cose presenti, si capisce, anche nel mio manuale-antologia, e preparate con certosina pazienza, ma anche con un certo senso di colpa). L’idea è che sia importante ritenere almeno questo: se Leopardi era o no pessimista; se Fenoglio era o no un neorealista; se Pagliarani faceva o non faceva parte del Gruppo ’63. È davvero uno strano atteggiamento. Nozioni che troveremmo ingenue, insulse, persino sciocche se ci venissero propinate in una conversazione, perché vi fiuteremmo subito l’imparaticcio (non è ovvio che “pessimista” e “neorealista” non dicono niente su Leopardi e su Fenoglio? E che importa con chi faceva gruppo Pagliarani, specie se non si legge La ragazza Carla?), sono proprio quelle che chiediamo agli studenti di mandare a memoria e di ripeterci: almeno quelle. Ma sapere queste cose non serve a niente, perché non è a questo che servono i libri.

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