L’operazione fumo negli occhi sembra riuscita alla perfezione: il dibattito parlamentare sulle unioni civili è stato inquinato da una polemica sul tema del tutto periferico della maternità surrogata. Il disegno di legge Cirinnà, che estende alle coppie omosessuali una parte dei diritti e doveri dell’istituzione matrimoniale, non consente l’accesso alla genitorialità. L’unica eccezione è la stepchild adoption, cioè l’adozione da parte del genitore non biologico dei figli del proprio partner. O sarebbe più corretto dire della propria partner, visto che si tratta in grande maggioranza di figli di donne.
Famiglie Arcobaleno, l’associazione di riferimento per i genitori omosessuali italiani, stima che i bambini delle coppie gay italiane siano in quattro casi su cinque figli di donne. Nel caso di padri gay, i figli sono nati da precedenti relazioni, da progetti di coparentalità con un’amica o attraverso la gestazione per altri. Questi ultimi sono talmente pochi – Famiglie arcobaleno ne conta circa cento tra i suoi membri – che possono essere tranquillamente definiti un’eccezione.
Allora perché in questi giorni sembra che parlare di stepchild adoption equivalga a parlare di gestazione per altri? Quelli che ricorrono alla gestazione per altri sono soprattutto eterosessuali, i quali, come tutte le coppie sposate, godono da decenni del diritto di adottare il figlio biologico del coniuge.
Il problema di fondo non è la gestazione per altri: è l’omosessualità
Perché la questione della maternità surrogata irrompe sulla scena politica solo quando si parla di coppie omosessuali, che rappresentano una casistica molto limitata? Semplice: le associazioni religiose e i movimenti omofobi hanno capito molto presto che la gestazione per altri era l’unico argomento su cui si poteva fare leva per generare il panico tra l’opinione pubblica e istigarla contro una legge che invece si occupa di rapporti affettivi tra due persone e, in alcuni casi specifici, di dare tutela giuridica ai loro figli, facendo in modo che quei bambini godano del riconoscimento giuridico della propria condizione familiare e vita affettiva.
Se gli appelli di alcune femministe o della stampa integralista cattolica sono arrivati proprio alla vigilia della discussione parlamentare sulle unioni civili è perché il problema di fondo non è la gestazione per altri: è l’omosessualità. Altrimenti non si spiegherebbe il loro silenzio sulla questione in tutti questi anni.
E lo conferma il fatto che uno dei loro principali slogan sia che “un bambino ha bisogno di un padre e di una madre”. Vale a dire una netta presa di posizione anche contro la genitorialità delle donne lesbiche. E contro quella dei genitori single, delle coppie risposate, delle famiglie allargate e di tutto il cosmo di famiglie che compone la società italiana contemporanea.
Permettere a dei gruppi di attivisti di definire cosa sia o non sia una famiglia è un gioco pericoloso per tutti, ed è per questo che tutti – eterosessuali e gay, anziani e giovani, uomini e donne – devono sentirsi chiamati in causa quando il futuro di un bambino figlio di due mamme è lasciato nell’incertezza giuridica e nella discriminazione.
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